Politica

Ancora manette e carcere per Ilaria Salis, la politicizzazione non ha aiutato

Per il giudice pericolo di fuga e accuse troppo gravi. L’orrore della carcerazione preventiva ma l’errore della politicizzazione: dalle opposizioni segnali dannosi

Ilaria Salis

Ancora in manette e in catene in aula, e ancora in carcere dovrà restare Ilaria Salis, la maestra italiana sotto processo in Ungheria per reati gravissimi. Respinta ieri la richiesta dei domiciliari in attesa del giudizio. “Le circostanze non sono cambiate”, esiste sempre il pericolo di fuga e una detenzione cautelare di 13 mesi “non è tanto lunga vista la gravità dei reati” di cui è accusata, ha spiegato il giudice ungherese.

L’accusa è di aggressioni potenzialmente letali ai danni di cittadini ungheresi e di far parte di un’associazione criminale dedita alla caccia al militante di destra in tutta Europa. Non proprio una sciocchezza, bisogna ammettere.

La carcerazione preventiva

Poi, certo, servono le prove e quando i tempi i protraggono per mesi c’è sempre il dubbio che l’accusa non ne abbia e che aspetti il miracolo, o peggio il crollo dell’imputato. Ci fa orrore la carcerazione preventiva. In Italia come in Ungheria.

Ma bisognerebbe chiedersi se chi oggi sbraita per Ilaria Salis si indigna con la stessa veemenza per le migliaia di cittadini detenuti nelle nostre prigioni in attesa di giudizio. Perché magari in Italia gli imputati non compaiono in udienza ammanettati, ma i casi di detenzione anticipata ingiustificata non mancano, anzi sono tristemente la norma ed uno dei grandi mali della giustizia italiana.

La politicizzazione

E bisognerebbe chiedersi, poi, se la politicizzazione del caso abbia favorito o al contrario danneggiato la Salis. Come sempre in casi simili occorre muoversi con grande cautela. Cautela mostrata fin da subito dal governo, ma non dalle opposizioni politiche e mediatiche.

“L’Ungheria è uno stato di diritto e il governo non interferisce in alcun modo nelle competenze della magistratura”, ha commentato l’ufficio stampa del Ministero degli esteri ungherese. Certo è che dopo il clamore mediatico, le reazioni politiche delle opposizioni, che hanno sollevato il caso come un clava per colpire il premier Giorgia Meloni per la sua vicinanza al premier ungherese Viktor Orban, e dopo l’interessamento del governo italiano, una decisione diversa da parte del giudice ieri sarebbe apparsa come un cedimento alle ingerenze di un altro Stato.

Al padre di Ilaria Salis la nostra massima comprensione, umanamente. Ma certo, se pensa che le chance di tirare fuori la figlia aumentino in funzione del numero di parlamentari che assistono alle udienze (“c’erano sette parlamentari, nessuno della maggioranza”), allora non c’è da essere ottimisti. Comprensibile la frustrazione, ma l’impegno del governo Meloni nella vicenda non si misura certo su queste cose. Anzi, a pagare in questi casi è il lavoro dietro le quinte, lontano dai riflettori.

Segnali sbagliati

Invitiamo per esempio i lettori a considerare un aspetto. Gli sforzi del governo si sono concentrati sul miglioramento delle condizioni di detenzione della Salis e sulla richiesta dei domiciliari in Ungheria, non sul tentativo di “riportarla a casa”, in Italia (come esige il padre e come chiede la sinistra), proprio per evitare di dare l’impressione di volerla sottrarre alla giustizia ungherese.

Chiediamoci quale messaggio può essere arrivato a Budapest, invece, dalla campagna politica “innocentista” delle opposizioni, e addirittura dalle voci circolate sulla stampa di una candidatura di Ilaria Salis nelle liste del Pd alle imminenti elezioni europee. Hanno rafforzato o indebolito la tesi del pericolo di fuga sbandierata dalla procura ungherese?

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