Troppo facile per il Pd pensare di liberarsi dell’obiezione che la riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, sia stata decisa con la legge costituzionale n. 3/2001 a strettissima maggioranza dal primo governo dell’Ulivo, ivi compresa la norma di cui all’art. 116, comma terzo, sulla c.d. autonomia differenziata. Liberarsene con una scrollata di spalle, come se fosse stata una previsione scappata per caso in sede di redazione della legge, eliminabile col boicottare qualsiasi legge di attuazione, a cominciare da quella “Calderoli” già varata.
Per chi ha avuto la fortuna di vivere quella stagione riformista, che impegnò tutta una classe intellettuale di grande livello, la legge n. 3/2001 aveva dietro una precisa concezione dell’Italia come una Repubblica delle autonomie, caratterizzata dal federalismo normativo e dal decentramento amministrativo.
Ora nell’attuale demonizzazione dell’autonomia differenziata – che costituisce la parte emergente di una critica nei confronti dell’intero Titolo V, cioè della forte valorizzazione delle autonomie, a cominciare proprio dalle competenze legislative attribuite alle Regioni – c’è dietro niente altro che una visione fortemente statalista, da sempre fatta propria della sinistra, in quanto precondizione di una politica radicale fortemente egualitaria, come tale realizzabile solo da un centro onnipotente.
La continuità
Va detto che vi è un elemento di continuità fra l’aver varato, ieri, la riforma costituzionale e l’essere, oggi, contrari alla sua attuazione, costituito da poco nobili ragioni elettorali, legate al classico divario economico e sociale fra nord e sud, con un chiaro riflesso sul voto. Allora, si trattava di conquistare il nord, largamente autonomista, ridimensionando la Lega, che aveva superato la sua originaria pulsione secessionista; ora, si tratta di accontentare il sud, fortemente statalista, mettendo in difficoltà la coalizione di governo, costretta a scontare le fibrillazioni di Forza Italia.
Il quesito referendario
Una volta licenziato dalla Corte di Cassazione, il quesito referendario relativo alla legge “Calderoli” passa alla Corte costituzionale che dovrà decidere se ammetterlo o meno, in base ai criteri elaborati con riguardo all’art. 75 della Costituzione.
Non è che la Corte non avrebbe la possibilità tecnica di bocciarlo. In fondo i proponenti del referendum non pensano solo che la legge “Calderoli” sia da abrogare, ma che nessuna altra legge attuativa dell’art. 116, comma terzo della Costituzione debba vedere la luce. Solo che lo possono sostenere nella propaganda ma non nella argomentazione di fronte alla Corte, perché equivarrebbe a cancellare un disposto costituzionale senza passare attraverso la procedura dell’art. 138 Cost., sulla procedura di riforma della Carta.
La valutazione della Corte
Preclusa la via di sostenere che la legge “Calderoli” sia incostituzionale per contrasto con lo stesso art. 116, comma terzo, perché per costante giurisprudenza della Corte in sede di valutazione del quesito non rileva alcuna questione di legittimità costituzionale, l’unica via resterebbe quella di evidenziare che il comma dedicato all’autonomia differenziata sia applicabile nell’ambito della libertà spettante al Parlamento anche in maniera diversa e alternativa rispetto alla legge “Calderoli”.
Ora, data l’ampia area di discrezionalità nell’applicazione di tali criteri, non va affatto sottovalutata la valutazione politica che la Corte ne farà, pur se tenuta sotto traccia: ammettere il referendum sembrerebbe la soluzione migliore, rimettendo la decisione al corpo elettorale; ma farlo svolgere comporterebbe una spaccatura nel Paese, prevedibilmente proprio fra Nord e Sud, fra l’altro giocata più che dal voto dall’astensionismo, essendo in gioco anzitutto il raggiungimento del più del 50 per cento degli aventi diritto.