Tra smoking e pugni chiusi, in una rarefatta atmosfera radical chic, ecco che ad aprire l’edizione 2024 della Festa del Cinema di Roma fu la pellicola “Berlinguer – La grande ambizione” diretto da Andrea Segre, che lo ha scritto con Marco Pettenello, con la convincente interpretazione di Elio Germano.
Operazione nostalgia
Intorno a questa pellicola ruotano professionisti che del segretario del PCI, e di tutta quell’epoca, non hanno (e non potrebbero avere) un alcun ricordo diretto; la loro indiscutibile conoscenza dell’uomo e dei fatti è esclusivamente documentaria e libresca, dunque non filtrata da emozioni di prima mano. In sé la cosa è normale, oltre che inevitabile. Si noti però che l’emozione che la pellicola vuole trasmettere non può, quindi, che essere un prodotto creato “in vitro”, preconfezionato nei suoi accenti e nei suoi colori.
È certo che l’immagine di quell’uomo mite ed introverso, curvo nelle spalle, ma elegante nei modi, come si conviene ad un aristocratico di antica schiatta, è indubbiamente affascinante; come è affascinante ed “estraniante” il modo in cui visse la sua azione politica, con il rigore ed il sacrificio di chi pare appartenere ad un ordine monastico.
Tutte suggestioni che stridono con il mondo attuale, in cui l’invadente mediaticità pare prevalere su tutto. Questo film, quindi, si configura dichiaratamente come una “operazione nostalgia”, rivolta anche (e soprattutto) a chi questa nostalgia non può provarla sul piano dell’esperienza umana.
La grande illusione
Comunque, dalla lettura della costruzione della pellicola e di ciò che sottende, parrebbe necessario modificare il complemento del titolo del lavoro con l’espressione: “la grande illusione”. Illusione? Certo! In ogni singolo fotogramma è evidente la volontà di dare della storia del PCI, e della società italiana una lettura bidimensionale, priva di profondità di campo (bestemmia per una pellicola).
Innanzitutto, tutta la narrazione si basa sull’assunto – tanto caro alla gauche caviar nostrana – della peculiarità del “comunismo” italiano. Certo si può ricordare come l’11 giugno del ’69, a Mosca, Berlinguer – non ancora segretario del Pci – alla Conferenza internazionale dei partiti comunisti, ribadì la via italiana al socialismo: una via democratica, plurale, nel solco della Costituzione repubblicana. Tesi alla base di successivi interventi intellettuali – ad usum dei grandi media – come quelli di Augias e Mauro che, ancora in questo 2024, enfatizzarono le peculiarità “nazionali” del comunismo togliattiano e della conseguente svolta di Salerno, alla base della narrazione del PCI.
Il mito della svolta di Salerno
Peccato che la storia ricordi altro, di molto meno romantico. Come ricorda Ortensio Zecchino, documenti emersi dagli archivi moscoviti dopo la fine del comunismo e pubblicati in Italia da Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky (Togliatti e Stalin. […] il Mulino 2007) hanno documentato che Togliatti aveva abbracciato la linea dura del non riconoscimento del governo Badoglio, ma fu energicamente costretto da Stalin a cambiare linea, in un non facile colloquio, che doveva restare segreto e che tale è restato fino all’apertura degli archivi dopo la dissoluzione dell’Urss.
Si è potuto così apprendere che l’incontro non avvenne nel febbraio del ’44, ma nella notte del 4 marzo, mentre l’inviato di Stalin, Alexander Bogomolov, da qualche ora, aveva già incontrato Badoglio a Salerno per comunicargli che “Mosca è pronta a riprendere rapporti ufficiali con l’Italia”. Purtroppo Rossi e Zaslavsky, che hanno dato voce ai nuovi documenti emersi dagli archivi moscoviti, hanno dovuto prendere atto che in Italia il “mito” della svolta di Salerno è tabù.
La storiografia italiana, in cui l’approccio “togliatticentrico” è radicato non soltanto tra gli storici di orientamento comunista ma anche tra quelli di orientamento cattolico (gli eredi di Moro?), ha accolto questi nuovi materiali dagli archivi sovietici con una pronunciata diffidenza (l’unico che capì subito le ragioni vere della “svolta di Salerno” fu Benedetto Croce, che affidò le sue azzeccate congetture al suo Diario).
Il mito della peculiarità del comunismo è fondante la costruzione della narrazione berlingueriana. Se si riconosce la falsità di questa leggenda, ecco che l’interna costruzione del disegno politico del PCI degli anni settanta crolla come un castello di carte. Come universalmente proclamato la strategia ideata da Berlinguer comprende – per dirla con Antonio Carioti – sia l’allontanamento cauto e progressivo da Mosca, sia, sul piano della politica interna, l’ipotesi di un accordo tra le maggiori forze popolari per attenuare la polarizzazione ideologica del sistema politico italiano.
Il compromesso storico
Quest’ultimo progetto del “compromesso storico”, in piena continuità con l’insegnamento togliattiano, deriva, in parte, da un’altra lezione proveniente dall’estero, il sanguinoso golpe cileno del 1973 contro il presidente socialista Salvador Allende. Berlinguer ha ben presenti i vincoli internazionali e di qui deriva la sua scelta di accettare la collocazione dell’Italia nella Nato. Già, ma ci si dimentica di dire che l’idea di “compromesso storico” non era una novità, ma una “restaurazione”, una la proposta di pacificazione, dopo lo strappo del ’47 con la Democrazia cristiana di De Gasperi, da cui una rilegittimazione del PCI che lasci cadere la pregiudiziale anticomunista in qualità di forza di governo.
Il piano prevedeva l’ingresso dei comunisti in una compagine di governo e, dopo lo sdoganamento, la possibilità dell’alternanza tra le due forze principali del Paese e gli altri partiti. Se il piano poteva apparire ambizioso (troppo), la sua prassi sarebbe stata quella di riproporre la formula dei “governi del CLN”, buona solo in periodi di guerra ed occupazione militare straniera; formula che venne sancita dalla Costituzione repubblicana (il presidente del Consiglio non può dimettere i suoi ministri), ma ripudiata dal voto popolare del 1948.
Sulle reali intenzioni di Berlinguer e, soprattutto, di Aldo Moro (figura quanto mai ambigua e, a detta di Francesco Cossiga, non estranea alla genesi delle formazioni paramilitari Stay Behind) rimangono in sospeso non pochi punti interrogativi, ma la prematura – da non pochi, di ogni schieramento, desiderata – scomparsa del presidente DC fece abortire ogni velleità. Per fortuna del PCI la repentina eclissi del “compromesso storico” gli ha impedito di essere costretto a “sporcarsi le mani” con la quotidiana gestione del potere, che non ha mai lasciato pulito nessuno, per baloccarsi nell’illusione del “oggi no, domani forse, dopodomani sicuramente”.
La contraddizione è evidente: se il PCI raggiunse il 34,4 per cento delle preferenze nel 1976, avendo da anni il voto della classe lavoratrice, è perché – de facto – cercò il voto del ceto medio, ma senza volersi trasformare in socialdemocrazia, senza mai diventare europeo e moderno. In una fondamentale intervista nel luglio 1980 ad Oriana Fallaci, Berlinguer disse:
Noi siamo comunisti, lei lo dimentica. […] Siamo nati e viviamo per combattere il capitalismo, cancellarlo, e lei non può portarmi a ragionare non dico come Brzezinski ma come un liberal americano. O come un socialdemocratico tedesco o come un laburista inglese […] ripeto: rimango comunista.
Messaggio ambiguo
Una nobile affermazione di identità e di appartenenza, ma sterile ed inutile. Nel suo rigore Berlinguer mancò di fare scelte radicali, mancò di tagliare con il passato. Quando, condannando l’autoritarismo ed il burocratismo dell’esperienza sovietica, difese, a Mosca nel 1977, “il ruolo guida della Rivoluzione d’Ottobre” tentò l’impossibile operazione di scindere i principi dalla prassi, non volendo ricordare che anche Lenin fu un campione della repressione politica violenta.
Ecco una sintesi contraddittoria: volere la sopravvivenza degli antichi principi ed il benessere prodotto dal capitale, senza capitalismo. Troppo facile! Questa contraddizione era evidente anche ai contemporanei. Forse è il caso di ricordare una canzone – ormai dimenticata – de I Nomadi del 1981 “I tre miti”. In un verso si legge: “avevano tre miti nel settanta o giù di lì: il sesso, il socialismo ed il GT”. In fondo una versione scanzonata del “siete realisti, chiedete l’impossibile”. Nulla di più distante dal Berlinguer uomo, ma conseguenza delle ambiguità insita nel messaggio berlingueriano.
L’arrocco della questione morale
Non è un caso, che persa la prospettiva “socialista”, Berlinguer – che non era in grado di sterzare il PCI su posizione socialdemocratiche e vincere la guerra con la storia – si arroccò nelle certezze della “questione morale”, sterile e stolta fortezza del nulla. Nella celebre intervista concessa a La Repubblica nel 1981 Berlinguer sentenziò:
I partiti non fanno più politica. Politica si faceva nel ‘45, nel ‘48 e ancora negli anni Cinquanta e sin verso la fine degli anni Sessanta. […] Che passione c’era allora, quanto entusiasmo, quante rabbie sacrosante! [oggi non è più così] i partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia. Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? […] I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela […]. Gestiscono interessi.
Noi siamo i buoni, gli altri sono cattivi. Facile! Una inutile e rabbiosa invettiva indirizzata contro Bettino Craxi che seppe, invece, far uscire il PSI da un complesso di inferiorità verso i comunisti (il peggior errore della storia socialista) per aprire al ceto medio prospettive progressiste e creare una alternativa non dogmatica alla Democrazia Cristiana, determinando una sconfitta del PCI che culminò con il “passo a lato” della Bolognina.
Il “profeta del nulla”
Non si può non essere d’accordo con Marcello Veneziani che sottolineò che Berlinguer “non lasciò tracce importanti, si oppose alla socialdemocrazia e la storia gli dette torto”. Se bisogna affermare con forza che si parla di una persona onesta e per bene non si può dimenticare una mediocrità strategica, una non capacità di bruciare i ponti dietro di sé.
Sempre per dirla con lo scrittore pugliese, la sua onesta e sincera austerità “evocò l’arcigno grigiore del comunismo al tramonto. Di cui Berlinguer fu l’icona triste in Italia, nonostante le postume beatificazioni”. Egli – se non si provasse laica pietas – potrebbe essere apostrofato con le medesime sprezzanti parole che il comunista Gramsci rivolse al socialista Matteotti alla scoperta del suo cadavere martoriato: “il profeta del nulla”.
Le eleganti paroure esibite dagli invitati alla prima del film sono le tangibili prove della sconfitta del “profeta”!