Boris Godunov: molti lo ascoltano, pochi lo capiscono

Pochi mesi fa un polverone all’idea di aprire la stagione della Scala con un’opera russa. Oggi tutti sopraffini musicologi dietro Mattarella. Analogie con l’autocrazia di Putin

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L’opera lirica è un tesoro dal valore inestimabile e rappresenta forse il tratto più sublime della cultura italiana. Tuttavia, quest’universo viene guardato in modo ostile da molti, quasi si trattasse di una realtà ermetica e spudoratamente elitaria.

Il 7 dicembre di quest’anno un tabù è stato infranto. Con la prima alla Scala di Milano del Boris Godunov, diretto da Riccardo Chailly, gli stereotipi attribuiti al recitar cantando sembrano essere svaniti per lasciare spazio all’euforia generale.

Sarà merito della musica di Musorgskij, dell’elaborata scenografia o della bravura del cast, specie del basso Ildar Abdrazakov nel ruolo di protagonista? In realtà, nessuno di questi fattori è risultato cruciale. Il che è inconsueto, se si pensa che l’opera in questione è un macigno arduo da digerire, tanto più da ascoltare con attenzione e vivo interesse.

La durata dell’epopea in quattro atti, circa tre ore, non deve aver infastidito i novelli musicomani; l’asprezza della lingua russa, l’intricato libretto e la sostanziale estraneità del Boris alla tradizione melodica del Bel Paese sono stati accolti con favore.

Le polemiche antirusse

Mesi fa si è sollevato un polverone mediatico senza precedenti poiché, secondo alcuni intellettuali, rappresentare un’opera russa all’apertura della stagione 2022-23 sarebbe stato offensivo nei confronti del popolo ucraino. Come se l’estinto Musorgskij avesse rapporti con il Cremlino o il Boris Godunov celebrasse la figura di Putin, a mo’ di apologia orsiniana.

Qualsiasi individuo dotato di buonsenso è in grado di scindere la cultura russa dalla brutale dittatura che traumatizza l’ex Urss. Adesso vedremo come questa critica dozzinale sia stata smentita dai fatti.

La tenaglia dell’establishment

Gli ospiti del Palco reale hanno entusiasmato il pubblico. Insieme al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, c’erano il presidente del Senato Ignazio La Russa e il presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il governatore della Lombardia Attilio Fontana, il sindaco di Milano Giuseppe Sala, e la presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen.

Tredici minuti di applausi scroscianti, seguiti dall’esecuzione del Canto degli Italiani e dell’Inno alla Gioia di Beethoven, hanno fatto da cornice al finale del Boris. Ma sono state le parole del presidente Mattarella a conquistare gli spettatori: “La grande cultura russa è parte integrante della cultura europea”. Anche gli acerrimi oppositori del Boris Godunov si sono inteneriti e hanno esclamato: “Grazie, presidente!”

L’ipocrisia della rete

Sorprende la rapidità con cui il sentiment comune muta e contraddice quanto sostenuto fino a poco prima. Come d’improvviso, migliaia di internauti sono assurti al rango di musicologi, maturando una conoscenza repentina – e fallace – non solo del Boris Godunov, ma del melodramma tout court.

“Meraviglioso allestimento!”, “caspita, un coro mozzafiato!”, “che costumi scintillanti!” e altri commenti melliflui si sono inanellati in breve tempo, tra raffiche di like e ricondivisioni.

Ai fini di un’analisi più corretta e, soprattutto, meno superficiale, si consideri un aspetto non trascurabile: il lavoro operistico di Musorgskij è un tassello minore nel panorama della lirica di fine Ottocento.

Un’opera debole

Il Boris Godunov evidenzia la stanchezza compositiva tipica del sinfonismo di Musorgskij. Tra gli elementi maggiormente discussi dell’opera, intitolata “dramma epico”, si possono cogliere le oscillazioni armoniche piuttosto ruvide, la reprise poco originale, tra l’altero e il pedissequo, dei motivi folkloristici e le incongruenze nell’orchestrazione, che saranno lenite dall’arrangiamento morbido e ovattato di Rimskij-Korsakov.

La partitura del Boris è una pietra miliare del Gruppo dei Cinque, certo, ma non possiede né lo slancio drammatico di Donizetti, né la pregnanza dei capolavori verdiani, né lo struggente lirismo dei titoli di Puccini.

Suscita interesse la trama dell’opera, dal momento che aiuta a comprendere cosa si cela dietro al sanguinario regime post-sovietico.

Le analogie con l’autocrazia di Putin

Tratto dall’omonimo dramma teatrale di Puškin, il Boris Godunov ripercorre le vicissitudini dello zar che regnò dal 1598 al 1605, nel cosiddetto “periodo dei torbidi”; un frangente segnato da intrighi cortigiani, soprusi e disumane violenze.

Sebbene l’intreccio del Boris Godunov sia complesso, è possibile individuare alcuni nuclei tematici che ricordano l’autocrazia di Putin.

Innanzitutto, il popolo russo che venera Godunov e si unisce idealmente al tiranno, salvo poi ritrovarsi nella morsa della carestia e della guerra per le sue decisioni scellerate. Lo stesso culto della personalità che connota la propaganda putiniana, a distanza di cinque secoli.

Quando Godunov assassina l’erede al trono Dmitrij per impadronirsi della corona imperiale emerge l’ombra degli omicidi a sfondo politico, tutt’ora una consuetudine in Russia. L’eliminazione fisica degli avversari non concerne solo la sfera istituzionale, ma colpisce anche gli attivisti e i dissidenti, come ha dimostrato l’uccisione della giornalista Anna Politkovskaya nel 2006.

Esaminare il Boris Godunov in modo consapevole gioverebbe di sicuro. Mentre indossare i paraocchi sulla base di pregiudizi culturali fa vedere una piccola parte della realtà. Ma questa sarà sufficiente per i finti intenditori, che si vanteranno senza cognizione di causa.

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