Di agglomerati come Caivano il Bel paese è tristemente pieno. Così come di periferie lasciate a se stesse, luoghi desolati e desolanti, prigioni della bellezza e altari della mostruosità. E quando la cronaca ci restituisce i fatti delittuosi che ivi si consumano, c’è da chiedersi – e da comprendere – quale sia stata la ratio di quei luoghi, la motivazione intrinseca che li ha fatti venire alla luce.
Perché sono nati posti del genere? La riposta ad una simile domanda appare, per alcuni versi, scontata: dare un tetto a tutti coloro che una casa, soprattutto nelle grandi città, non se la sarebbero potuta (mai) permettere. Da una parte dunque un’intenzione – seppure contestabile a livello ideologico e macroeconomico – nobile. Un’azione, si direbbe, di giustizia sociale.
L’etica dell’estetica
Ma cosa accadrebbe se andassimo alla ricerca di un’etica dell’estetica? Vale a dire – in sostanza – capire gli schemi logico concettuali sottesi all’aspetto esteriore dei vari Caivano sparsi per l’Italia. In questo caso, la nostra ricerca porterebbe ad un vicolo cieco. O, in alternativa, a delle verità scomode. Basta semplicemente alzare lo sguardo verso una di queste lande abbandonate ed intuire che la progettazione di tali luoghi perpetua – o forse ha come suo sbocco naturale – la ghettizzazione di intere fasce sociali.
La mancanza di collegamenti, le strade che portano da nessuna parte, il deterioramento architettonico e strutturale degli edifici, sono tutti segnali che dovrebbero portarci a capire che l’errore, la colpa è all’origine. All’origine di politiche che la sinistra (in origine la sinistra democristiana, con il vecchissimo piano Fanfani) ha sempre rivendicato come strumenti finalizzati all’”inclusione”, la redistribuzione, la riduzione delle sperequazioni.
Il punto è proprio questo: come è possibile che dei luoghi chiusi in se stessi, autoreferenziali, progettati per rimanere isolati dal restante tessuto sociale, possano generare “inclusione”?
Il risultato è semmai l’esatto contrario: Caivano è l’emblema di un falso buonismo – tipicamente sinistroide – che nel nome dell’”inclusione” esclude, marginalizza, ghettizza. E non ci venissero a dire che si tratta di opere redistributive, poiché la redistribuzione di ricchezza – laddove sia efficace, e molto spesso non lo è – produce risultati soltanto quando ciò che viene redistribuito si trasforma poi in ulteriore benessere, diffuso.
La repressione non basta
Sul punto il governo fa bene ad adottare il pugno di ferro, ma dovrebbe sempre ricordarsi che delle politiche (esclusivamente) repressive possono alleviare il problema, non risolverlo del tutto. Ci vorrebbe tanta onestà intellettuale e anche un po’ di coraggio per affermare che posti come Caivano non dovrebbero più esistere.
Nel breve periodo, abbattere interi fabbricati dove vivono esclusivamente famiglie a basso reddito è pressoché impossibile. Ma nel medio e lungo termine potremmo riconcepire questi spazi, dal punto di vista estetico ed etico, renderli il punto della ripartenza, non del declino. Incentivando la riqualificazione degli edifici, con nuove architetture, investendo sulle infrastrutture materiali e morali.
L’emancipazione definitiva di quei luoghi dal degrado non avverrà con le barricate, l’esercito e la polizia. Piuttosto con la cultura, l’educazione civica, l’arte e la bellezza. Estetica ed etica sono due dimensioni intimamente legate, ed il successo di politiche governative riposa, a volte, nel saper cogliere queste sottigliezze.