Nonostante abbia scelto di allearsi con chi, come Nicola Fratoianni, non ha votato la fiducia al governo Draghi nemmeno una volta, ormai da diverse settimane il segretario del Pd, Enrico Letta, sta cercando di raccogliere l’eredità politica dell’ex governatore della Bce.
Eppure, le differenze tra i due sono evidenti. Non tanto per quanto riguarda i contenuti, su cui Letta e Draghi presentano alcuni punti di convergenza (si pensi, per esempio, al salario minimo o alle politiche sanitarie che abbiamo più volte criticato su Atlantico Quotidiano). Si tratta, piuttosto, di una differenza di stile.
Lo stile Letta
Cominciamo dal leader Dem: qualche giorno fa, Letta ha incontrato a Berlino il cancelliere tedesco Olaf Sholtz e il presidente della SPD, che ha auspicato la vittoria del Pd alle prossime elezioni, bollando di “post-fascismo” il partito guidato da Giorgia Meloni.
È ovvio: oltre a promuovere un’agenda diametralmente opposta a quella di Fratelli d’Italia, i socialdemocratici tedeschi mirano anche a supportare i propri partner stranieri, allo stesso modo in cui Meloni sostiene – legittimamente – la destra di Vox in Spagna.
Eppure, al di là delle fisiologiche differenze e diffidenze politiche, la campagna demonizzatrice condotta dalla sinistra ha tra i suoi obiettivi quello di suscitare il timore degli investitori internazionali e delle cancellerie europee per la probabile vittoria di FdI.
La presunta transizione verso il modello ungherese e gli scenari apocalittici paventati dai Dem in caso di vittoria del centrodestra certamente non giovano all’immagine dell’Italia nel mondo.
Lo stile Draghi
Passiamo a Mario Draghi, recentemente insignito del World Statesman Award 2022: anche l’uscente presidente del Consiglio ha criticato con fermezza lo schieramento sovranista, sia pure senza fare nomi, ma in modo assai più pacato e rispettoso.
Alla 57esima edizione dell’Annual Award Dinner di New York, a cui ha partecipato anche l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, così come allo scorso meeting di Rimini, Draghi ha puntato il dito contro i rapporti di alcune formazioni politiche con Vladimir Putin e Viktor Orban (a dire il vero, le critiche sembravano rivolte più a Matteo Salvini che a Giorgia Meloni).
Tuttavia, l’ex capo della Bce ha anche chiarito che, a prescindere dall’orientamento politico del prossimo governo, l’Italia ce la farà comunque e resterà collocata saldamente nel campo occidentale, autorevole membro dell’Ue e della Nato.
Una lezione imprescindibile, di cui tutti dovrebbero tener conto: è sacrosanto confrontarsi, in modo anche acceso, sul terreno delle idee. Altra cosa è delegittimare sistematicamente l’avversario, distribuendo patenti di legittimità, disposti a farlo a scapito dell’immagine del Paese all’estero.
Il pericolo fascista
Si possono non condividere alcune scelte di Giorgia Meloni, ma negarle aprioristicamente il diritto di governare, ignorando la volontà espressa dai cittadini, come ha suggerito con sprezzo del ridicolo il filosofo francese Bernard-Henry Lévy nella trasmissione di Marco Damilano (“Non bisogna sempre rispettare l’elettorato”), pare francamente eccessivo.
Nessuno più, in Italia, crede al pericolo fascista: la trappola della sinistra scatta ogni volta che si prospetta la vittoria del centrodestra o di chi è inviso al mondo progressista (anche i 5 Stelle e Matteo Renzi, a loro modo, lo sono o lo sono stati).
Ma chi non vive a stretto contatto con la realtà italiana rischia di rimanere fuorviato dalle ricostruzioni fantasiose di alcuni leader politici, più interessati al fallimento degli avversari che all’interesse nazionale.