L’equazione è semplice: per selezionare una classe dirigente inadeguata occorre necessariamente aver smarrito il senso (vero) della politica. Così come per eleggere un personaggio politico privo di una reale vocazione alla collettività occorre che vi sia alla base una illogica ratio. Quella della ricerca spasmodica di un ipotetico consenso o di appartenenze “da tenere strette”.
Il quadro che appare è da tempo sconfortante. Al netto di figure eccellenti, capaci, di profilo alto, c’è una pletora di personaggi di medio-basso profilo, che si trovano miracolati a ricoprire ruoli per loro inadatti. Ciò induce a riflettere, e leggere nelle pieghe di questo argomento può aiutare a comprendere da dove iniziare a riformare finalmente la politica.
Un tempo non era così. Diciamolo pure: per comprendere i concetti complessi della politica occorreva una formazione specifica che avveniva in seno ai partiti. Ora questa complessità è invece banalizzata, azzerata. E questo si ripercuote inevitabilmente sullo spessore di chi ne è portavoce.
Ma il problema della classe dirigente riguarda ormai ogni settore della società, fino alle impensabili vicende che hanno coinvolto anche la magistratura, che dovrebbe essere indenne da certe manchevolezze.
Cosa è successo negli ultimi decenni? C’è stato un arretramento culturale senza fine. Carenza di formazione e quindi di competenze che la società intera ha conosciuto con un progressivo imbarbarimento, a mio avviso dovuto in buona parte all’assenza di approfondimento, in parte frutto della forma stessa dei mezzi di comunicazione dai contenuti minimi come i social, e con la possibilità di raggiungere in pochi istanti un numero infinito di persone.
Come se ne esce? Ogni volta si rischia di cadere nella nostalgia dei tempi andati, dal tono “andava meglio quando andava peggio”, ma credo che la scuola come agenzia formativa ed educativa dovrebbe rimodulare la sua azione in tal senso, aiutando i ragazzi a riscoprire la complessità. Oltre, naturalmente, ad una formazione politica nei partiti. Esperti che possano davvero “istruire” e far maturare i politici di domani.
La dissoluzione della partecipazione di massa alla vita pubblica è evidente. Ciò deriva proprio dalla mancanza di punti di riferimento culturali e di apprezzamento dei soggetti politici. Basta ascoltare i talk show ogni giorno per averne prova. Ciò priva la discussione politica di luoghi e occasioni di confronto, sostituiti da comunicazioni che, per essere virali, si concentrano più sull’espressione che sul pensiero (parafrasando Croce). Oggi si comunica tantissimo, ma si discute sempre meno. Specie sui social, ormai (ahinoi) agenda politica.
La liquefazione dei partiti di massa, figlia della ideologia della fine delle ideologie, che descrive la politica come una pura tecnica fatta per risolvere problemi di natura oggettiva, al riparo da scelte di tipo ideale e valoriale, ha decretato un forte cambiamento. La retorica del voler “parlare a tutti”, di fatto rinuncia a qualunque soggettività sociale di riferimento e corteggia ogni bisogno, purché veicolabile nel consenso.
In questo scenario è assai difficile qualunque tentativo di sintesi politica che sia ispirato ad una visione complessiva della società ed è molto arduo, sempre più diciamo, “fare” politica. Il grande vuoto di partecipazione alla vita democratica rende sempre più la politica una pratica per iniziati, che si compie al riparo dal confronto pubblico.
Agli occhi della cosiddetta gente comune, fare politica sembra quasi una parolaccia: e quando le cose non vanno bene, meglio consolarsi nello sberleffo subalterno verso i potenti, con un post o un commento al bar.
Allora ecco che si comprende (ma non si giustifica) perché la partecipazione politica tenda a diminuire drasticamente ad ogni tornata elettorale, e tutto si riduca alla selezione dei candidati, che ha assunto un’importanza vitale, anche se figure non di partito ma riconosciute benevolmente dalla società, così da scriverne il nome sulla scheda elettorale per capitalizzarne l’esposizione mediatica agli occhi dei consumatori dell’offerta politica, abituandoli a reagire come fossero di fronte ad una serie Netflix: “non fa per me, mi piace, adoro!”.
Se poi si sposta il ragionamento sul piano locale, dei territori, è del tutto evidente come anche qui si annaspi nell’affannosa ricerca di portatori di voti, figure spesso non preparate, interessate più a ottenere ruoli o scranni che a impegnare buona parte delle energie a formarsi per dare poi risultati, mentre c’è chi puntualmente viene messo da parte anche se capace, perché rischierebbe di mettere in ombra chi non lo è ma riveste ruoli apicali.
Importa davvero la competenza? C’è da chiederselo. L’esempio del Movimento 5 Stelle, che ha portato in Parlamento i tanti “uno vale uno” ne è l’esempio. Ma anche altri partiti sulla scia di vittorie importanti hanno permesso a nullità di sedere in Parlamento, pagati da noi tutti. Ovviamente, non bisogna generalizzare, per non incorrere esattamente in quella retorica dell’antipolitica, che disincentiva la partecipazione e lascia ogni decisione in mano a pochi manovratori.
“Politica” non è una parolaccia. Lo sanno bene, dentro i partiti, le associazioni e i movimenti e tutti coloro che (e ce ne sono, dai vertici alla base) hanno voglia di mettersi al servizio del bene comune. Non c’è niente di peggio che credere che “siano tutti uguali”. Non è vero.
Certo, chi fa politica intende incidere sul potere, anzi – possibilmente – conquistarlo. Ma è bene ricordare che quella parola non è solo un sostantivo, ma anche un verbo all’infinito e significa avere la capacità e il permesso di fare qualcosa. Un permesso che si riceve dagli altri con un voto e che per gli altri andrebbe usato. Possibilmente, con una classe dirigente capace e preparata, credibile. Solo così la partecipazione potrà risalire e aprire una nuova pagina di storia.