Politica

Consenso gonfiato ma non troppo: Putin più forte

Barricarsi dietro la denuncia di elezioni non democratiche per i nostri standard non toglie che la politica occidentale ha fallito nel tentativo di isolare Putin dal suo Paese

Russia Putin voto © andriano_cz tramite Canva.com

Chiedo scusa al lettore di Atlantico se mi porrò tre domande su altrettante vicende che stanno infuocando la discussione in atto sui mass media, prendendo spunto da dichiarazioni di personaggi politici, per esecrarli o difenderli.

Il consenso per Putin

A tener banco in questi giorni è in particolare la dichiarazione di Matteo Salvini “Han votato, prendiamo atto. Han votato e quindi quando un popolo vota ha sempre ragione ovunque voti”, che si è voluta leggere come un endorsement a Vladimir Putin, il che può essere, ma è servito a distrarre dal vero fatto rilevante, cioè il consenso di cui gode in Russia.

Barricarsi dietro il fatto che non siano state elezioni secondo il modello classico, definendole farsa, per la mancanza di altri candidati credibili, tutti fatti fuori, uccisi o incarcerati, o per la totale padronanza dei mezzi di comunicazione, per l’occhiuta vigilanza sulla partecipazione al voto, non toglie che la politica occidentale ha fallito nel voler isolare Putin dal suo Paese, si può dire che si è rivelata controproducente.

Da un’intervista al sondaggista russo Denis Volkov, ritenuta attendibile tanto da essere pubblicata su Repubblica del 18 marzo, si apprende che il consenso per Putin si aggirava intorno all’80 per cento già prima delle elezioni, per una duplice ragione: la tenuta economica e l’unità di una nazione coinvolta in una guerra entrata in una fase favorevole.

Le reazioni hanno sfiorato il ridicolo, come la proposta del PPE di dichiarare Putin presidente illegittimo, quando si tratta di un interlocutore con cui si dovranno comunque fare i conti. Scomunicarlo non serve, non lo fa il Papa, immaginiamoci gli Stati Uniti e la Ue.

Non sono state elezioni all’occidentale, ma quando mai ci sono state in Russia? Pur sempre un plebiscito, dal risultato gonfiato ma non troppo, il dato che ci consegna è un Putin più forte, con una ricaduta sulla conduzione della guerra in Ucraina.

Oltre il Donbass

Ormai è certo che non si potrà sloggiare dal Donbass e dalla Crimea, ma resta il sospetto che voglia spingersi anche oltre, tanto che il presidente francese Emmanuel Macron, meno avventuroso di quanto lo si voglia far sembrare, si fa carico del possibile collasso del fronte ucraino per mancanza di uomini, sì da anticipare l’eventualità di un invio di soldati europei e americani.

Vuol dire dare inizio alla terza guerra mondiale, con la minaccia di risposta atomica? Però dare credito a questa minaccia, al di là delle tante parole roboanti, vuol dire accettare nei fatti l’amputazione del territorio ucraino, se non addirittura la fine dell’Ucraina come Paese indipendente.

Pacifismo a senso unico

A tenere la scena non è ormai la guerra in corso in Ucraina per cui non c’è alcuna mobilitazione popolare, anche se pure qui dovrebbe giocare la simpatia verso il più debole, come per l’occupazione israeliana della Striscia di Gaza.

Che non sia così dipende da un antiamericanismo profondamente radicato nel nostro Paese, eredità di un PCI che lo ha coltivato per decenni, che vede nella Russia antagonista per eccellenza degli Stati Uniti, cui si sposa un pacifismo a senso unico, interpretato dal Pontefice con l’invito ad alzare bandiera bianca, rivolto chiaramente al perdente di turno, il presidente ucraino. Si aggiunga, cosa rilevante, che il maggior partito dell’opposizione, il Pd, non è disposto a dar copertura a manifestazioni contro l’Ucraina o addirittura pro-Putin, mentre lo è con qualche distinguo a quelle contro Israele.

Le paure di Israele

A stare sulla scena è anche l’operazione israeliana nella Striscia di Gaza. Ora, la premessa universalmente condivisa è che Israele non abbia alcuna ragione a suo favore perché la mattanza palestinese sarebbe solo una vendetta per la strage del 7 ottobre. Ho già cercato di sostenere che non è la vendetta, ma una preoccupazione circa la propria esistenza a motivare la campagna israeliana, visto l’intera storia pregressa di tentativi dei Paesi arabi circostanti di buttare il nuovo Stato a mare.

Se oggi questo non è più per Egitto e Giordania, lo è ancora per Hamas e per gli ex mullah del Libano, la tattica dei bombardamenti considerando la morte dei civili come danni collaterali è la stessa degli americani nella Seconda Guerra Mondiale, in Germania con i bombardamenti a tappeto e in Giappone con la bomba atomica, con Roosevelt e Truman la giustificazione era la stessa, risparmiare la vita dei soldati.

Il che non significa che la strage del 7 ottobre non abbia contato, ma come conferma della permeabilità del confine con la Striscia di Gaza in concomitanza con la ravvivata pressione sul confine con il Libano, sì da alimentare nella maggioranza della popolazione israeliana la paura ancestrale per l’accerchiamento. La liberazione degli ostaggi è stata di fatto subordinata alla continuazione della guerra, tenendo a bada la rumorosa protesta dei famigliari.

Costo insostenibile

Capire le ragioni non significa farle proprie. È difficile sradicare Hamas, fisicamente non solo politicamente, perché proiettata eliminazione di Israele dalla carta geografica – esplicita dalla rivendica di uno stato palestinese dal Giordano al mare – largamente maggioritaria nelle popolazioni arabe, unite dalla comunanza di una religione assolutista. Del che, poi, è consapevole lo stesso governo israeliano, che è deciso a mantenere comunque l’occupazione della Striscia.

Ma poi il costo sta diventando insostenibile, con Paesi in passato amici costretti a prendere le distanze, compresi gli stessi Stati Uniti, perché quello che poteva essere giustificato nella Seconda Guerra Mondiale a carico dei civili non lo è più oggi agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, per essere una guerra asimmetrica in fatto di forza militare e soprattutto non condotta contro l’autentica barbarie del regime nazista.

La piena consapevolezza del quadro geopolitico deve portare a distinguere fra gli uomini di Hamas e i civili palestinesi, se pur cosa non sempre facile sul campo; il non farlo vuol dire inevitabilmente trasformare la condanna di Israele in quella degli ebrei, come religione ed etnia, se pur sotto la coperta di un antisionismo di maniera.

Le mobilitazioni

Nelle mobilitazioni in corso questo non succede, sono manipolati in funzione anti-maggioranza dai partiti di opposizione e da Cgil e Uil; e infiltrati da gruppi dominati da una rabbia antisistema concentrata su un odio razziale, che finisce per esprimersi in pura violenza contro persone fisiche, ree di essere ebrei.

Dispiace ma a chi le ha vissute di persona ricordano gli anni ‘70, con una sinistra tardiva nel prenderne atto. Si inizia con le parole, ma si finisce con le pietre, con tutta la comprensione di Repubblica, Maurizio Molinari, vittima di un ignobile sopruso, è sempre preferibile dialogare specie con i giovani, ma non con quelli che usano la violenza per nascondere l’ignoranza.

Processo Regeni

Nel chiudere una breve osservazione circa il processo in corso a Roma sul caso Regeni, dove sono imputati quattro agenti del servizio segreto egiziano. Dopo il semaforo verde della Corte costituzionale, è stata celebrata la prima udienza, ma a stare al rendiconto fattone dal Corriere della Sera del 19 marzo, tutto si è bloccato per la mancata disponibilità dell’autorità egiziana a procedere tramite rogatoria nei confronti di testi egiziani individuati dalla Procura.

Sorge una domanda, se l’istruttoria non potrà svolgersi per mancanza dei testi provenienti dall’Egitto, cosa c’è dietro la porta, l’assoluzione dei quattro imputati?

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