Politica

Così Papa Francesco riporta in auge tesi condannate da Wojtyla e Ratzinger

I messaggi di Bergoglio sempre irrimediabilmente vaghi e ambigui. Dagli echi peronisti alla “teologia della liberazione” con i suoi postulati marxisti

Fabio Fazio e Papa Francesco

I commenti entusiastici sulle tante uscite di Papa Francesco sono così numerosi da indurmi a credere che una piccola manifestazione di perplessità sia, in fondo, giustificata. Il pontefice che viene “dalla fine del mondo”, come egli stesso ha definito l’Argentina, suo Paese natio, continua a spron battuto sulla strada intrapresa sin dal primo giorno quando, appena eletto, parlò alla folla radunata in Piazza San Pietro usando parole semplici e frasi senza fronzoli. Per rimarcare subito che non si sentiva una persona speciale, bensì un fedele fra tanti, arrivato quasi per caso al vertice della Chiesa cattolica.

Vaghezza dello spirito

La semplicità, tuttavia, non è necessariamente abbinata alla vaghezza. Eppure è proprio questa l’impressione che chi scrive – e molti altri – ricevono sentendolo parlare. Già si sapeva che Jorge Bergoglio, a differenza dei suoi predecessori Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger, non è teologo né filosofo. Preferisce la dimensione pastorale a quella teologica e, fin qui, nulla di male. Altri Papi prima di lui avevano la stessa attitudine, e penso che l’alternanza tra queste due tipologie di pontificato sia del tutto naturale.

Però la vaghezza eccessiva può essere pericolosa se a manifestarla in continuazione è il capo della Chiesa. Credo che tutti rammentino l’impressione negativa destata da alcuni dialoghi “teologici” tra l’attuale Papa ed Eugenio Scalfari. Il fondatore di Repubblica venne accusato di aver frainteso le parole dell’ex cardinale di Buenos Aires, ma poi si scoprì che invece Scalfari le aveva capite benissimo, e che il suo giornale si era limitato a fornire un resoconto tutto sommato fedele dei dialoghi.

Negli anni giovanili, da studente, Jorge Bergoglio era un simpatizzante di Peron. Un giorno entrò in classe esibendo il distintivo peronista appuntato sulla giacca. Ammonito dall’insegnante, lo fece anche il giorno seguente buscandosi una sospensione. E, pure in questo caso, nulla di male. A quel tempo, in Argentina i peronisti erano tantissimi (e sono rimasti tanti anche ora).

Il problema è, a mio avviso, che la vaghezza dello spirito peronista, quell’insistere nel cercare una terza via tra socialismo e capitalismo senza peraltro specificarne bene i contorni, si ritrova pari pari nei discorsi di Francesco.

Echi peronisti

Franco Cardini ha scritto che il merito principale dell’attuale Papa è aver scosso l’indifferenza che era sul punto di sommergere la Chiesa, rendendola un’entità marginale nel mondo contemporaneo. Per questo Jorge Bergoglio vuole che essa diventi davvero universale, schierandosi senza timore con gli ultimi e con i poveri. “Fino a quando – aggiunge Cardini – la Chiesa dei Bagnasco e dei Bertone e quella dei Don Gallo e degli Enzo Bianchi avrebbero potuto convivere?”. Di qui la battaglia intrapresa contro i cosiddetti “curiali”.

Dal punto di vista politico – più che pastorale – la strategia si capisce e, ovviamente, con essa si può concordare o meno. Qual è però il fine ultimo della suddetta strategia? Mi sbaglierò, ma nei discorsi del Papa percepisco spesso, oltre agli echi peronisti, anche quelli della celebre “teologia della liberazione” che proprio in America Latina nacque e prosperò nella seconda metà del secolo scorso.

Mi si permetta di non condividere il grande entusiasmo che da più parti viene espresso per lo stile di questo pontificato. Certo il Papa è popolare. Anche perché, a dispetto della sua presunta ingenuità, fa un uso sapiente dei mass media e trova sempre il modo di collocarsi al centro dell’attenzione. Che dire ancora? I critici sono in minoranza e gli entusiasti abbondano, anche nel novero dei non credenti. Forse perché Papa Francesco coglie assai bene lo spirito del nostro tempo, lo segue e lo incoraggia. Essere vaghi aiuta ed evita prese di posizione impegnative.

La teologia della liberazione

Tuttavia avevano ragione coloro (incluso il sottoscritto) che percepivano nei dialoghi e nei discorsi del Papa echi inequivocabili della “teologia della liberazione” di matrice sudamericana. Quel movimento, battezzato ufficialmente nel 1968 durante una riunione del Consiglio episcopale latino-americano tenutosi nella città colombiana di Medellin, diede il via a un’intensa riflessione che, pur tra alti e bassi, è viva ancor oggi.

In estrema sintesi, i suoi fondatori assunsero una posizione radicale sul tema controverso dei rapporti tra il cristianesimo da un lato, e la dimensione politica e sociale dell’agire umano dall’altro. Sostennero infatti che il messaggio cristiano ha soprattutto un valore di emancipazione nel senso terreno del termine, ragion per cui la Chiesa avrebbe dovuto farsi carico della lotta contro ogni forma di ingiustizia e di povertà.

La liberazione dalla povertà si può ottenere soltanto con una trasformazione radicale delle società attuali, anche se sotto accusa finirono innanzitutto capitalismo e liberalismo, mentre il rifiuto nei confronti di ordinamenti totalitari era più sfumato.

Accusati di tradire il significato vero del magistero della Chiesa cattolica, alcuni esponenti del movimento rinunciarono ai voti spontaneamente o vi furono costretti, pur continuando la loro opera di proselitismo nell’ambito delle comunità di base. Mette pure conto notare la netta contrarietà di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI alla suddetta teologia. Papa Ratzinger, in particolare, accusò i suoi esponenti di accettare in modo acritico postulati marxisti e di altre ideologie giudicati incompatibili con la dottrina sociale della Chiesa.

L’enciclica Laudato si’

Con l’avvento di Jorge Bergoglio la teologia della liberazione torna in auge, come molti avevano intuito da tempo. Se si vuole una prova basta leggere il commento entusiastico di Leonardo Boff, uno dei fondatori del movimento, all’enciclica papale Laudato si’. Brasiliano, ex frate francescano e presbitero, ha subito nel 1984 un processo da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede, allora presieduta da Joseph Ratzinger (che, tra l’altro, fu proprio uno dei relatori della sua tesi di dottorato). In seguito, nel 1992, dopo aver ricevuto ulteriori ammonimenti da Papa Wojtyla, Boff lasciò l’ordine francescano continuando l’attività come teologo laico.

Nel citato commento uscito su Repubblica l’ex francescano afferma con chiarezza che la “forma mentis” di Papa Francesco è strettamente tributaria “dell’esperienza pastorale e teologica delle Chiese latinoamericane, che, alla luce dei documenti dell’episcopato latinoamericano (Celam) di Medellin, di Puebla (1979) e di Aparecida (2007), fecero un’opzione per i poveri, contro la povertà e a favore della liberazione”. “La struttura dell’enciclica – prosegue Boff – ubbidisce al rituale metodologico in uso nelle nostre Chiese e nella riflessione teologica legata alla pratica della liberazione, ora adottata e consacrata dal Papa: vedere, giudicare, agire e celebrare”.

La distanza con i predecessori

Non intendo in questa sede discutere circa la validità della teologia della liberazione. Non voglio nemmeno pronunciarmi sulla fondatezza delle parole di Boff (anche se, a naso, mi pare che veda giusto). Mi preme invece rilevare quanto forte sia la distanza che separa Francesco dai suoi predecessori. È in sintonia con tesi e movimenti che Wojtyla e Ratzinger hanno condannato.

Aggiungo infine che le parole di Papa Francesco contro il mercato e la cosiddetta “tecnoscienza” mi spingono a confermare l’opinione che i messaggi dell’attuale pontefice sono sempre e irrimediabilmente vaghi. E forse proprio per questo affascinano le folle. Tuttavia occorre pur spiegare con cosa il mercato va sostituito, e quali sono le alternative al progresso scientifico e tecnologico. In assenza di ciò anche i discorsi del capo della Chiesa rischiano di aumentare una confusione già molto alta nell’opinione pubblica.