Come ormai noto, la scorsa settimana la Corte Suprema ha giudicato – nella causa Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization – la costituzionalità della legge Gestational Age Act (2018) dello Stato del Mississippi, che vieta l’interruzione della gravidanza dopo la quindicesima settimana di gestazione (dunque più permissiva della nostra Legge 194, che prevede 13 settimane), a esclusione dei casi di emergenza e di gravi anormalità fetali.
Tale proibizione avrebbe contrastato con due precedenti sentenze della stessa Corte Suprema – Roe v. Wade del 22 gennaio 1973, e Planned Parenthood of Southeastern Pennsylvania v. Casey del 22 aprile 1992 – che però sono state ribaltata dalla sentenza della settimana scorsa, la quale ha stabilito che non esiste un diritto costituzionale federale all’aborto, rimettendo la questione alle scelte dei parlamenti statali democraticamente eletti.
La decisione ha suscitato numerose e intense reazioni emotive e politiche che, in verità, si erano già manifestate all’indomani della fuoriuscita di una sua bozza che anticipava il senso della decisione, forse con l’intento di condizionarla.
Sono molteplici i profili di interesse della decisione, alcuni dei quali possono avere rilevanza anche in un’ottica italiana.
Il ruolo “creativo” della Corte
In primo luogo, l’elemento di maggiore rilievo della pronuncia sembra essere quello del ruolo della stessa Corte Suprema e del suo rapporto con il legislatore (federale e statale).
Come è noto, da tanti anni è acceso il confronto tra coloro che promuovono una tesi “originalista” della giurisprudenza della Corte Suprema e una invece che la intende come fattore di produzione concorrente del diritto costituzionale vivente.
Naturalmente, i toni del dibattito non sono letteralmente mutuabili nel nostro ordinamento, ma possono comunque trovarvi una loro trasposizione, confrontandosi sostanzialmente una scuola restrittiva del ruolo “creativo” della giurisprudenza della Corte costituzionale e una più estensiva.
E questa distinzione sembra essere oggi una delle linee di confine tra progressismo e conservatorismo.
Infatti, il primo sembra prediligere l’approccio evolutivo e creativo delle giurisprudenze supreme e costituzionali; mentre il secondo si esprime in favore di un approccio delle Corti più restrittivo, preferendo la legittimazione democratica alla competenza tecnica quale qualità fondamentale per la produzione del diritto e dunque le Camere elettive alle Corti.
Alternanza fisiologica
Il secondo aspetto che si vuole approfondire viene evidenziato da una delle prevalenti critiche e cioè che la decisione sia dipesa dalla nomina di tre giudici da parte del presidente Trump.
Naturalmente, la critica viene strumentalizzata, anche con degli evidenti eccessi in taluni casi, ma, a ben vedere, coglie un elemento di verità che spesso si omette di considerare: la giurisprudenza delle Corti supreme e costituzionali dipende principalmente dagli uomini e dalle donne che le compongono e dunque può mutare con il cambiare della loro composizione.
Si tratta, a ben vedere, del normale ciclo democratico che comporta la possibile alternanza nel tempo di diverse visioni che nelle Corti supreme possono manifestarsi in tempi differiti rispetto al loro maturarsi nella società.
Anche se ciò sembra collidere con una tendenza generale alla necessaria uniformità di prospettive che squalifica come oscurantiste e degeneri quelle contrarie, al punto da aver fatto avanzare l’ipotesi di una riforma che aumenti il numero dei componenti della Corte Suprema per ristabilire una maggioranza democratica.
Inoltre, anche questo aspetto è un ulteriore argomento in favore di un approccio restrittivo delle giurisprudenze supreme e costituzionali, poiché la giurisprudenza “creativa” lo è sempre, anche quando la composizione di una Corte potrebbe condurre ad esiti non graditi.
In ultima analisi, un’interpretazione costituzionale che abbia nel dato testuale la sua pietra angolare è una condizione di garanzia per tutti, restando sempre possibile la facoltà di mutare il dato normativo, anche costituzionale.
La reversibilità dei diritti
Infine, vi è un terzo elemento che la sentenza statunitense mette in evidenza e che smentisce alcuni orientamenti dottrinali prevalenti che ritengono che il riconoscimento positivo di un diritto sia qualitativamente irreversibile, cioè non sia possibile prevedere una disciplina peggiorativa di un diritto o peggio la sua abrogazione tout court.
Questa tesi pecca, ad avviso dello scrivente, di eccessivo astrattismo poiché ignora i processi storici e, soprattutto, la loro circolarità. La storia umana non è un processo lineare e coerente di sviluppo e talvolta vi possono anche essere regressioni, apparenti o reali, a causa di un diverso assetto sociale o anche per la radicalizzazione estrema di determinate tutele che possono comportare fenomeni reattivi.
La questione è particolarmente delicata quando tocca i temi eticamente sensibili come, per l’appunto, l’aborto, il quale necessariamente richiede un bilanciamento tra le esigenze di tutela della salute fisica e psichica della donna, l’unica beninteso che può assumere la scelta di portate o meno a termine la gravidanza nei termini e modi previsti dalla legge, e quelle di tutela della vita umana che sta prendendo forma nel grembo della madre.
Ai cittadini il potere di decidere
Inoltre, se vi può essere un diffuso consenso sulla necessità di una regolamentazione, più o meno restrittiva, dell’aborto, soprattutto di quello terapeutico, volerlo qualificare come diritto fondamentale radicalizza ideologicamente il tema che sul piano pragmatico e concreto, appunto, può più agevolmente trovare un punto di sintesi.
In questo senso, cioè nell’ottica di una ricerca continua del bilanciamento percepito come più giusto da una data comunità umana, anche alla luce delle conoscenze scientifiche che l’embriologia ha sviluppato negli ultimi cinquanta anni, forse la scelta di demandare il compito al legislatore merita una maggiore ponderazione e rispetto, anche perché non accade spesso che un organo supremo ceda spontaneamente la spettanza del potere di decidere su uno specifico argomento. Anzi, accade più spesso il contrario.
In conclusione, riallacciandoci al primo profilo esaminato, diversi opinionisti hanno affermato che la decisione potrebbe produrre effetti contrari alle intenzioni dei giudici della Corte Suprema, poiché ciò potrebbe polarizzare la prossima campagna elettorale di midterm, favorendo i candidati e le forze politiche pro choice.
È possibile che ciò accada. Ma credo che ciò, a ben vedere, conformerebbe le intenzioni dei giudici della Corte Suprema, i quali non hanno emesso una pronuncia che vieta l’aborto, ma una che invece attribuisce in ultima istanza ai cittadini statunitensi il potere/dovere di decidere per il tramite dei rappresentanti che eleggeranno nel Congresso e nelle assemblee legislative statali.