In questo inizio di campagna elettorale, caratterizzato da molto tatticismo e poca strategia, non si parla di programmi ma la scena è dominata dalle ipotesi di alleanze più o meno allargate. In particolare, grande è la confusione che regna nel centrosinistra ancora traumatizzato dalla fine prematura del governo Draghi, che ha portato inevitabilmente alla “rottura irreversibile” con quel che resta della galassia pentastellata a conduzione contiana.
Un vicolo stretto
Ma a Enrico Letta, proclamatosi front runner della coalizione, aver spezzato il legame con la compagine grillina (ritenuta responsabile della caduta dell’Esecutivo) non è stato sufficiente per rimettere in sesto il suo campo largo che assomiglia sempre più a un vicolo stretto. D’altronde, la velleità di costruire un’alleanza disomogenea che tenga insieme tutto e tutti, da Fratoianni a Brunetta, sconta delle prevedibili difficoltà e non assicura neppure un risultato elettorale apprezzabile.
Le tre punte
Infatti, da una parte, c’è la pressione di chi vuole assicurarsi un posto nel listino essendo rimasto senza partito o militando in formazioni che farebbero fatica a raggiungere il quorum. Non a caso, i più attivi in questa fase convulsa sono due ministri ancora in carica, Luigi Di Maio e Roberto Speranza. Il primo filtra con Beppe Sala, sindaco di Milano, e si rivolge a Tabacci per il simbolo.
Il secondo ha già aderito al progetto unitario “con grande convinzione”. Come se avesse avuto un’alternativa. Non a caso, Letta ha indicato proprio Di Maio e Speranza come punte di diamante della nascente coalizione.
L’altra sarebbe Carlo Calenda che, forte di alcuni sondaggi favorevoli, vuol far pesare il suo consenso tanto è vero che si è proposto addirittura come candidato premier. Questo ha fatto storcere il naso a molti, soprattutto nella sinistra più massimalista che percepisce Calenda come un “liberista” (cosa su cui ci sarebbe parecchio da discutere).
Non a caso, Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana, ha preso le distanze dal leader di Azione: “Il programma di Calenda non ha nulla a vedere con il mio, io continuo a rivolgermi a Letta e Conte perché si costituisca il filo del dialogo”. Insomma, all’estrema sinistra si pensa ancora a ricucire con i 5 Stelle. Lo stesso Speranza ha invitato Letta a non chiudere definitivamente con Conte & Co: “Non possono diventare i nostri nemici”. Calenda, dal canto suo, ha difficoltà a relazionarsi pure con il fuoriuscito Di Maio e ha bollato come “frattaglie di sinistra” l’unione tra Sinistra Italiana ed Europa Verde capeggiata da Fratoianni.
Per la verità, pure al centro, Calenda non raccoglie grandi consensi. Memorabile è stato il suo scambio con Mastella che lo ha definito “il Trump dei Parioli che pensa di essere meglio di tutti gli altri” dopo che il leader di Azione lo aveva stuzzicato parlando dell’alleanza come un “fritto misto” che va da Di Maio allo stesso Mastella.
In questo quadro già abbastanza ingarbugliato, incombe la figura ingombrante dell’ex premier Matteo Renzi che punta a un accordo per non restare fuori dal prossimo Parlamento. In un primo momento, sembrava possibile una reunion con Calenda che, invece, si è rivelata più complicata di quella dei Pink Floyd.
Poi, l’amico/nemico Enrico Letta gli fatto sapere che non c’è alcun veto su di lui ma, nel concreto, non gli ha offerto ancora nessun posto nel listino anche per non mettere in ulteriore subbuglio l’ala sinistra dello schieramento già abbastanza precario e litigioso.
Insomma, il clima è un po’ da fratelli coltelli che hanno la necessità di mettersi insieme per tentare di strappare in extremis almeno un pareggio.
Di contenuti non c’è traccia
D’altronde, al di là del cartello elettorale, di contenuti non c’è traccia. Letta prova a sopperire a questa carenza inventandosi una metafora al giorno come un novello Bersani. Prima ha evocato i famosi “occhi della tigre” alla Rocky, poi ha detto che il suo partito dovrebbe assomigliare a un quadro di Van Gogh con colori netti e, infine, s’è buttato sul ciclismo paragonando il percorso del suo campo largo a un tappone dolomitico, tutto in salita.
In effetti, l’inizio non è dei più incoraggianti, all’orizzonte non si vedono scalatori e i nodi restano tutti sul tavolo delle trattative. Così come gli screzi passati e presenti difficili da ricomporre solo in un nome di un’immaginaria linea Maginot da erigere “in difesa della democrazia e della Costituzione”.
Il rigorismo sanitario unico collante
In effetti, questi allarmi si sono sprecati (fino a diventare ridondanti e noiosi) nella prima settimana di campagna elettorale. Eppure, proprio tutti i soggetti che ambiscono a far parte dell’alleanza di centrosinistra hanno sostenuto in maniera robusta le misure liberticide del periodo pandemico, hanno sempre appoggiato l’operato più che discutibile del ministro Speranza, non hanno mai arginato l’intransigenza sanitaria di qualche presidente di Regione che milita tra le loro fila.
Basti pensare pure all’infelice battuta (sempre che si trattasse di una battuta) del ministro Brunetta sul tampone che doveva arrivare fino al cervello e provocare sofferenza nel malcapitato o il fatto che Walter Ricciardi, il consulente di Speranza, sia iscritto ad Azione (con questo legittimando i dubbi sull’impostazione “liberale” della formazione calendiana).
Probabilmente, il rigorismo sanitario è l’unico collante che può unire il campo largo e smussare le divergenze interne. Per cui, questi richiami al rischio di una deriva autoritaria rilanciati in maniera assillante da parte della stampa risultano paradossali e quasi beffardi dopo due anni di pesanti restrizioni, divieti e obblighi. Almeno la lezioncina di democrazia dai paladini del Green Pass ci venga risparmiata.