I segnali non erano incoraggianti già da anni. Pochi giorni fa eravamo tornati sul caso del prof. Marco Bassani. Dopo la sanzione della sua università, la Statale di Milano, per un meme su Kamala Harris postato su Facebook, la decisione di dimettersi in polemica con il sistema universitario: “All’ombra della pubblica istruzione ha prosperato un sistema che più che sviluppare un pensiero critico a tutti i livelli ha reso le aule universitarie una madrasa del Pd“.
Ma in questi mesi almeno due eventi hanno fatto da detonatore di ciò che cova nelle nostre università. La vittoria del centrodestra alle elezioni che ha portato al governo Meloni e la guerra in Medio Oriente scatenata dall’attacco di Hamas contro Israele il 7 ottobre scorso. Questi due eventi hanno fornito carburante e innesco alle proteste di studenti di sinistra radicalizzati.
Non sono idee marginali
Attenzione, perché qui non parliamo di idee fringe. Si tratta di studenti che estremizzano, portano alle estreme ma logiche conseguenze idee fatte proprie e promosse a tamburo battente dal mainstream progressista. Che si tratti di clima, di patriarcato, di guerra o di Israele, il minimo comune denominatore è l’anti-occidentalismo, la critica al sistema capitalista.
E il metodo è il tentativo sistematico di criminalizzare chi la pensa diversamente, accusarlo di fascismo o comunque delle peggiori nefandezze, e quindi comprimere la sua libertà d’espressione, anche fisicamente e in ogni occasione in cui ciò sia possibile: un’aula universitaria, un convegno, la presentazione di un libro, o in piazza.
La pretesa, qualunque sia la protesta del momento – Israele o, appunto, il clima o il genere – è che le istituzioni e in particolare gli atenei adottino la loro posizione e sconfessino quelle altrui. Contro Israele in particolare le pulsioni antisemite si mescolano alla critica del colonialismo, come hanno magistralmente spiegato in due recenti articoli su Atlantico Quotidiano Fabrizio Borasi e il prof. Michele Marsonet.
L’Università di Torino
Niente di particolarmente nuovo. Di nuovo però c’è che l’Università di Torino ha accolto la richiesta di boicottaggio di Israele e ha deciso di ritirarsi dagli accordi accademici, di collaborazione scientifica, con enti israeliani. Il Senato accademico si è piegato al volere degli studenti pro-Hamas del collettivo Cambiare Rotta, dopo che questi avevano fatto irruzione nella riunione. Ha scritto bene Daniele Capezzone ieri su Libero, “non sapremmo dire se intimiditi o culturalmente omogenei”, i docenti hanno obbedito.
Il problema quindi non è più circoscritto a frange di giovani estremisti che ci sono sempre state. Da un lato perché, come detto, le loro sono cause sono sposate dal mainstream, solo portate alle estreme conseguenze. Ma c’è di più: da dove deriva l’arroganza e la violenza dimostrate nel pretendere di impedire agli altri di parlare o, come nel caso dell’Università di Torino, che l’ateneo, a loro comando, sospendesse ogni rapporto scientifico con enti israeliani?
Deriva da due “derive”, scusate il gioco di parole, che si sono accentuate negli ultimi anni: non solo collettivi studenteschi e corpo docente delle nostre università sono ideologicamente affini (e dunque perché non aspettarsi che anche la scuola o l’università si schierino?), ma negli ultimi decenni l’intero sistema dell’istruzione e universitario è stato sempre più schierato ideologicamente su certi temi, sposando esplicitamente cause come quella della lotta ai cambiamenti climatici, molto spesso per iniziativa degli stessi ministeri, a prescindere da chi fossero governati.
Prendete il caso degli studenti sanzionati dall’Università Bocconi per la battuta sui bagni gender. Di fronte a queste aberrazioni, non c’è da meravigliarsi poi che alcuni studenti avvertano l’università come “cosa loro” ideologicamente e agiscano di conseguenza.
Ci stiamo accorgendo amaramente in questi giorni di quanto anche le nostre università si siano radicalizzate e si dimostrino affette da tutto quel coacervo di idee, posizioni e atteggiamenti che ricadono nella cosiddetta ideologia woke.
Defund!
Ha ragione quindi Capezzone quando esorta il governo Meloni a non limitarsi ad esprimere la “profonda preoccupazione” di rito in questi casi, ma a muovere qualche passo in più: per esempio, ritirare i finanziamenti pubblici a “qualunque luogo o istituzione universitaria o educativa dove siano avvenute forme di censura e atti di discriminazione su base politico-ideologica, dove sia stato praticato il de-platforming, cioè siano stati cacciati relatori o impedite conferenze”.
Togliere i fondi a chi attacca o anche non fa abbastanza per tutelare il free speech, a maggior ragione nei luoghi della cultura, e a chi non è in grado o peggio non vuole tenere l’antisemitismo fuori dalle università. Defund!
Come abbiamo ricordato alcuni giorni fa, negli Stati Uniti la politica ha cominciato ad occuparsene. L’attacco al free speech nei campus universitari è da anni in cima all’agenda dei Repubblicani. Al Congresso e nei singoli Stati sono in cantiere progetti di legge per togliere i finanziamenti agli atenei che non tutelano il free speech.
Già nel 2019 l’allora presidente Donald Trump firmò un ordine esecutivo in cui ordinava a 12 agenzie che erogano fondi federali, in coordinamento con l’Ufficio di gestione e bilancio, di assicurarsi che i college rispettino la libertà d’espressione. Il governatore della Florida Ron DeSantis ha firmato una legge che proibisce di usare fondi pubblici per finanziare i programmi DEI (Diversity, Equity, Inclusion) nei college. Leggi simili sono state introdotte in una ventina di Stati.
I rettori delle più prestigiose università Usa sono stati chiamati a rendere conto davanti al Congresso delle loro politiche di ammissione, delle restrizioni alla libertà d’espressione e alla libertà di insegnamento e, in ultimo, delle manifestazioni di antisemitismo tollerate se non incoraggiate dopo il 7 Ottobre, in questo caso derogando dalle stringenti regole interne in materia di hate speech.
Ecco, il centrodestra dovrebbe agire e intraprendere simili iniziative, quanto meno convocare in Parlamento i rettori delle principali università italiane per capire cosa sta accadendo, quali sono le politiche interne adottate, quanti e quali i casi di sanzioni, e come eventualmente intervenire a tutela della libertà d’espressione – per esempio condizionando ad essa l’erogazione di fondi pubblici.