Il voto si avvicina e gli ultimi sondaggi sembrano mostrare quella che ormai sembra essere una tendenza consolidata, a meno di imprevedibili, ma comunque sempre possibili, eventi.
Si delinea una netta affermazione elettorale del centrodestra che dovrebbe corrispondere ad una solida maggioranza in ambedue le Camere.
In attesa del voto, e di misurare gli equilibri effettivi all’interno della coalizione di centrodestra e delle altre forze, si possono sin d’ora svolgere alcune riflessioni che manterranno comunque la loro validità, anche in caso di rocambolesco rovescio dei sondaggi.
Il “campo di battaglia”
In via preliminare, si conferma che qualsiasi tipo di “conflitto” dovrebbe partire dall’analisi obiettiva del “campo di battaglia”. Detto altrimenti, in una cornice elettorale contraddistinta da un terzo dei seggi da assegnare in collegi uninominali e dall’assenza del voto disgiunto, l’esito tra una coalizione unita (vedremo dopo il voto se sarà anche politicamente compatta) e una che si divide in tre tronconi è scontato.
Si obietterà che in politica il consenso di una coalizione non è necessariamente uguale alla somma dei consensi delle singole forze, ma ciò non toglie che per una competizione effettiva le forze devono perlomeno essere comparabili in termini di consenso elettorale.
Oggi il distacco tra la coalizione del centrodestra e quella di sinistra viaggia tra il 15 e il 20 per cento, mentre il confronto tra le singole forze dei due schieramenti (Fratelli d’Italia versus Pd, Lega versus 5 Stelle, Forza Italia versus Azione e Italia Viva ecc.) non è poi così netto.
Ciò verosimilmente determinerà un effetto trascinamento per la coalizione data da tutti i sondaggi in netto vantaggio, avvicinandola ad una percentuale di voti prossima al 50 per cento e sdrammatizzando il tema della sua sovra rappresentazione parlamentare.
Infatti, una lista che consegue una percentuale di voti altissima, oggi stimata da molti sopra il 45 per cento, e che in virtù del meccanismo elettorale abbia la maggioranza assoluta, non sembra rappresentare una situazione patologica sul piano del funzionamento del sistema costituzionale.
Ciò premesso, tutti i sondaggi concordano su un eccellente risultato elettorale di Fratelli d’Italia, che dovrebbe superare agevolmente la soglia del 20 per cento e, probabilmente, essere il partito di maggioranza relativa della prossima legislatura. Questo dato sembra evidenziare due fenomeni.
La “margherita dello scontento”
Il primo concerne quello che potremmo chiamare la “margherita dello scontento”. Da qualche anno ormai, si assiste a improvvise fiammate elettorali di leadership che sembrano rappresentare un elemento di rottura degli equilibri esistenti per poi improvvisamente spegnersi, spesso dopo la loro esperienza di governo.
Ed è un fenomeno che sembra avere carattere trasversale, avendo interessato soggetti di diverso orientamento politico: il Pd di Renzi; il Movimento di Grillo; la Lega di Salvini e ora Fratelli d’Italia della Meloni.
Questo fenomeno di tentare diverse soluzioni, come se si sfogliasse una margherita con la speranza di trovare il petalo giusto, testimonia, forse, l’esistenza di un malcontento diffuso nell’elettorato che percepisce un progressivo peggioramento delle sue condizioni di vita materiali e morali e le sta provando tutte per invertire questa tendenza, finora con scarsi esiti.
Al riguardo, uno degli aspetti più stupefacenti sembra la sordità del c.d. establishment a questo malessere, con la difesa a prescindere di uno status quo che evidentemente non è percepito da una significativa parte della popolazione come giusto, o comunque soddisfacente.
E proprio il prossimo successo della Meloni sembra confermare ciò, essendo difficile ritenere che vi sia stata una fulminea conversione di massa per un’offerta politica fortemente e chiaramente connotata.
La ricerca di coerenza
E questo sembra essere il secondo fenomeno evidenziato dall’attesa affermazione della Meloni: la ricerca di una proposta chiara e coerente.
Non si esclude, infatti, che una parte di consenso del centrodestra andrà comunque verso Fratelli d’Italia anche perché rispetto alle altre formazioni politiche è quella che fornisce maggiori garanzie di mantenere nel corso della legislatura un orientamento conforme al mandato elettorale.
Si badi bene che chi scrive ritiene che il divieto di mandato imperativo sia un pilastro delle democrazie liberali, ma non si può non vedere che il trasformismo, singolo e collettivo, vissuto nelle ultime legislature è la negazione di qualsiasi vincolo fiduciario con l’elettore.
La scorsa legislatura è da questo punto di vista emblematica e probabilmente ciò ha anche alimentato l’impetuosa crescita elettorale dell’unica forza politica, Fratelli d’Italia, rimasta estranea alle tre distinte maggioranze che si sono succedute e che sono accomunate dal fatto che nessuna di essa era immediatamente riconducibile al mandato elettorale.
In altri termini, il voto dato a chi ha dimostrato di dare concreto rilievo alla fiducia riscossa sembra rappresentare per molti il mezzo di autodifesa migliore nei confronti di un’evidente chiusura autoreferenziale e oligarchica della società politica italiana.
E, forse, sarebbe opportuno che i vertici del centrodestra meditassero su queste brevi riflessioni, al fine di vincere la sfida più importante che hanno ora davanti, cioè quella di non disperdere il capitale elettorale e politico che presto raccoglieranno.
A cominciare dal non farsi tentare dalle sirene che dal 26 settembre inizieranno a cantare la necessità di maggioranze diverse da quelle con cui i partiti si sono presentati davanti l’elettorato; ormai è evidente che larga parte delle classi dirigenti italiane ed europee preferiscano soluzioni da loro congegnate piuttosto che quelle determinate dal voto dei cittadini.
Questo pericolo potrebbe essere molto attenuato, soprattutto se il probabile esito delle urne dovrebbe rendere meno praticabile le alternative alla maggioranza di centrodestra.
La discontinuità
Ma c’è un altro elemento che Giorgia Meloni dovrà considerare per evitare di vedere sfumare, o ridimensionare, la sua occasione di affermare una leadership strutturalmente duratura: marcare un significativo segno di discontinuità rispetto alle politiche dell’ultimo decennio almeno, rassicurando che ciò non comporti salti nel buio.
In questo senso sarà fondamentale, anche sul piano simbolico, scegliere la squadra giusta per l’eventuale governo, con persone autorevoli nei posti chiave, ma che diano al contempo un segno di cambiamento.
Sarebbe un grave errore politico-simbolico confermare ministri del governo in carica, a prescindere ovviamente dalla loro competenza e affidabilità: le persone voteranno centrodestra e Fratelli d’Italia per cambiare.
Dimenticarlo sarebbe il più grave errore politico che si potrebbe compiere e determinerebbe future certe sconfitte.
Naturalmente, cambiare non significa rivoluzionare tutto ed essere conservatori potrà dare il giusto equilibrio tra esigenze di cambiamento e conservazione, mantenendo lo scopo primario di invertire la tendenza italiana al declino.
Se così non sarà, il rischio è che lo sfoglio della margherita dello scontento continui finché tutte le soluzioni democratiche si saranno esaurite. E generalmente quando ciò accade non è mai un bene.