Esaminata a grandi linee, nella puntata precedente, l’antico concetto di Europa, il Continente dominato dai più potenti Paesi dell’antichità, sarebbe utile capire cosa esattamente s’intenda con il termine “Europa”.
Se, come accade spesso la s’immagini come un territorio omogeneo con il medesimo stile di vita, ambizioni comuni, popolazioni affratellate dalla comune stirpe. Le cose stanno, però, assai diversamente e sarebbe fuorviante sottovalutare e sottostimare quelle profonde differenze storiche, culturali, persino fisiche e fisiognomiche che differenziano gli oltre 450 milioni di abitanti della sola Unione europea.
Ben 24 lingue
Esempio unico tra i quattro Continenti, l’Europa parla ben 24 lingue ufficiali (in ordine alfabetico: bulgaro, ceco, croato, danese, estone, finlandese, francese, greco, inglese, irlandese, italiano, lettone, lituano, maltese, neerlandese, polacco, portoghese, rumeno, slovacco, sloveno, spagnolo, tedesco, svedese e ungherese).
A differenza dell’America Settentrionale, nelle quali si parlano soltanto tre lingue (inglese, francese, spagnolo), del Sudamerica, in cui le lingue parlate sono sei (spagnolo, portoghese, inglese, olandese, francese, tedesco), oltre ai linguaggi nativi non ufficiali e all’italiano che non è lingua ufficiale.
Per quanto riguarda l’immenso Continente asiatico, invece, si contano soltanto sei lingue parlate (arabo, cinese, coreano, giapponese, hindi, persiano) oltre a quelle secondarie come bengali, sanscrito e tibetano. La sola Oceania annovera più lingue parlate rispetto all’Europa, arrivando a circa 30, ma non si dimentichi che esistono molte nazioni oceaniche non più grandi dell’Isola D’Elba, ove poche centinaia di residenti parlano la lingua autoctona ufficialmente riconosciuta.
Già da questa semplice ma cruciale considerazione appare in tutta la sua drammatica evidenza che in Europa non esiste una vera lingua comune che ne sia il collante: vero, prevalgono inglese, francese e tedesco, ma tale è un predominio di tipo strettamente politico ed amministrativo e ristretto ai palazzi del potere. Chiunque di noi sa che se mettiamo un norvegese di fronte a un portoghese non potranno che parlarsi a gesti ed altrettanto capita tra italiani e svedesi o tra inglesi e spagnoli.
Sono dati di fatto, non sempre spiegabili, ma, in pieno terzo millennio, ciascun Paese europeo pare non avere la minima intenzione di rinunciare alla propria parlata, se non quando costretto dalle cerimonie ufficiali. Se poi si aggiungano i Paesi che fecero parte dell’Urss e della Cortina di Ferro, non si pone proprio il problema. Parlavano allora, parlano oggi ed ancora parleranno la loro lingua anche nelle riunioni dell’Assemblea dell’Onu, senza farsene il minimo problema.
Troppe guerre
Assai probabilmente, tanto orgoglio linguistico, non di rado accompagnato da una bella dose di sciovinismo, affonda le radici nel ricordo storico, mai sopito, delle troppe guerre che gli europei si sono fatti per millenni.
Questo starsi vicendevolmente sulle balle degli europei è il vero tratto comune all’ombra del drappo blu stellato. Dagli unni ai visigoti, dai saraceni ai legionari romani, se una lingua straniera si diffuse in un’altra nazione europea, sebbene per tempi abbastanza brevi, quasi sempre fu un’imposizione armata, con la sola esclusione dell’espansione localizzata di dialetti marinareschi alloctoni per puri motivi commerciali, come quello genovese. A nessun europeo è mai passato per la mente d’imparare e parlare una lingua diversa dalla propria, se non per fini strettamente familiari, di studio o di lavoro. Punto.
Manca un sentire comune
Da noi manca quel profondo sentimento unitario che “fa sentire americani” tutti gli abitanti degli Stati Uniti o “sentire sudamericani” gli argentini, i cileni, i brasiliani. Sono, quelle, popolazioni che molto hanno in comune tra di loro da molti punti di vista. Se ciò accade, principalmente per le troppe volte che ci si è accoppati beatamente tra europei, bisogna comunque tenere nel giusto conto gli stili di vita, le tradizioni e persino i riti religiosi tutt’altro che omogenei, tutti elementi con evidente effetto centripeto rispetto ad un polo centrale che, peraltro è tutt’altro che comunemente identificato ed accettato.
Finché, Roma fu Roma, nel bene e nel male, coi suoi imperatori assassini e dissoluti, coi suoi altrettanti non sempre irreprensibili papi, il problema non si pose più di tanto: o si stava con o si stava contro, ma l’Europa era perfettamente rappresentata da Roma. Caduto il potere temporale del pontefice, con l’inevitabile conseguenza della destabilizzazione di molte monarchie europee, alle soglie del XIX secolo avrebbe potuto benissimo nascere qualcosa che assomigliasse all’Europa. Non nacque. Per un motivo semplicissimo: non conveniva a nessuno.
Se americani, asiatici, arabi o africani lo si è per un immenso patrimonio comune, persino impresso nel Dna, l’essere europei, fuori di ogni entusiastica retorica, non è mai una scelta, quando non sia stata un’imposizione di sopravvivenza.
L’illusione federalista
I molti movimenti federalisti che videro, soprattutto all’inizio del XX secolo, come salutare e praticabile un’ipotesi di Federazione Europea, composta di Stati membri indipendenti, tutti accomunati e racchiusi in una struttura organizzativa ed amministrativa comune hanno spesso fatto riferimento alla Confederazione Elvetica (grande come Liguria, Piemonte e Lombardia messi assieme) come schema ideale che si potrebbe immaginare applicabile ad una federazione europea che, comunque, nessuno vuole.
Non parliamo nemmeno della tanto acclamata Confederazione degli Stati Indipendenti Russi. Durata pochi anni e tra mille frizioni e diseguaglianze; poi, la Russia ha ripreso a fare la Russia e buonanotte.
Gli Stati Uniti d’America
Chi, invece, pensi agli Stati Uniti d’America come possibile schema applicabile al nostro Continente avrebbe ancora vita più dura. Negli Usa si parla una sola lingua, al massimo due con la diffusione dello spagnolo in anni recenti, la conformazione geografica è poco variata, tutti derivano per genealogia dagli stessi Padri Pellegrini o dai nativi americani, tutti hanno un solo esercito, un solo Congresso, un solo presidente.
La scelta federale è stata di pura comune convenienza tra i vari Stati, nessuno dei quali ci ha rimesso un centesimo, anzi. Sono situazioni di fatto e conformazioni sociali troppo distanti dalla realtà multiforme, diversissima persino nel clima, nelle risorse naturali e nelle attività prevalentemente esercitate degli abitanti europei.
Le guerre
Per non parlare della storia, che ha forgiato gli abitanti delle varie nazioni spingendoli in armi tra nazioni confinanti e non, ma sempre contro altri europei. Esiste ancora oggi gente incazzata con altri popoli europei a causa della Prima (avete letto bene: Prima) Guerra Mondiale, per non parlare degli orrori della Seconda e degli eccidi di nazifascisti e comunisti (con o senza divisa) che ancora bruciano nelle carni dei parenti di chi li ha subiti. Dovrà arrivare, prima o poi, la pacificazione. Ma la storia insegna che, di solito, non basta un secolo.
Si continua a presentare al mondo l’immagine di un’Europa che, attraverso le elegantissime e luccicanti istituzioni comunitarie, è un blocco granitico di comuni voleri e comuni sentimenti e bla bla bla. Ma, ogni giorno, la Francia e la Germania ci fanno guerra commerciale, dopo avercela fatta con le armi non troppi anni fa.
Se a qualcuno possono rivolgersi primariamente e con fiducia totale gli americani, quelli sono i britannici, che, tra l’altro, mai entrarono, possiamo dire saggiamente, nel sistema monetario unico europeo, e dall’Europa ne sono usciti del tutto, per preponderante volontà popolare e, a quanto dicono i giornali inglesi, nella maggioranza che decide non intendono fare dietrofront. Vi è poi la rispettabilissima e civilissima Svizzera (non trascurabile forziere europeo, tra l’altro) che rimane, a tutt’oggi, Paese extracomunitario.
Non vi dice proprio niente? Possibile che i più fessi dobbiamo sempre essere noi italiani? Vedremo più tardi quanti benefici e quanti problemi ci derivino da tanto sbandierato europeismo. Permettetemi, per ora, di rimanere focalizzato maggiormente sui propositi europei, sui pochissimi realizzatisi con successo e sui troppi che ci hanno impoverito e reso la vita difficile.
Pensatori e realtà
Eppure, le premesse parevano esserci, nel Dopoguerra, quando, pur non potendo che assecondare la volontà dei vincitori della guerra (anche se di ciò ce ne dimentichiamo spesso) l’idea di Europa come istituzione era una gran bella cosa, ma intanto era più immediato e necessario approfittare degli immensi aiuti finanziari concessici dall’America per risollevarci dalla distruzione che il secondo conflitto mondiale aveva lasciato nel Vecchio Continente. Ubi maior, minor cessat.
Agli statisti, veri o d’accatto, non farebbe male ricordare che la gente (tanto più dopo una guerra mondiale) mette al primo posto, con urgenza assoluta, avere un tetto sopra la testa, mangiare circa due volte al giorno, avere un lavoro che gli permetta di mantenere la propria famiglia. Parleremo nella prossima a puntata dei c.d. “Padri dell’Europa”, ai quali i più appassionati ed interessati di quel genere di manfrine teoriche tributano meriti per qualcosa che, nella sostanza, non venne mai realizzato.
Ma intanto, o si aderiva alla Nato oppure si aderiva alla Nato. Quale diavolo di alternativa potevamo avere noi, stracciati, battuti, sputtanati, ed unicamente salvati nell’onore da singoli atti di puro eroismo che, per fortuna nostra, molti nostri soldati hanno dimostrato al mondo? Da quando le regole le fanno quelli che perdono le guerre?
Potremmo chiederci se nel 1946-1947 v’era spazio, v’erano i presupposti per parlare di Europa. Avevamo ancora la guerra che divideva in due la Germania, molti nostri prigionieri non erano nemmeno tornati dai campi di prigionia russi, inglesi, americani e chi più ne ha più ne metta.
Non avevamo ancora dato degna sepoltura a troppi nostri caduti e dispersi e già avremmo dovuto pensare a qualcosa che, oltretutto, non sarebbe stata graditissima a chi ci donò 17 miliardi di dollari di allora in un solo quadriennio per permettere ai Paesi dell’Europa occidentale di rifiatare, di sfamarsi, di iniziare a ricostruire le città e le fabbriche martoriate dal conflitto. Da una parte i pensatori (per quanto rispettabili e molti in buona fede) e dall’altra chi si doveva rimboccare le maniche e proteggere almeno per qualche anno da nuove minacce armate.