Politica

Fini-Rutelli, trent’anni fa la sfida che ha cambiato la politica italiana

Gianfranco Fini ricorda le elezioni che sancirono il tramonto della Prima Repubblica e la nascita del bipolarismo. Sì al “sindaco d’Italia”

Gianfranco Fini 1992 Gianfranco Fini (1992)

Le elezioni amministrative del 1993 hanno segnato uno spartiacque nella storia repubblicana. Grazie alla legge n. 85 del 25 marzo 1993 si affermò una novità assoluta nel panorama politico: l’elezione diretta del sindaco. Il triennio 1992-1994 fu caratterizzato dalla profonda mutazione dell’assetto istituzionale italiano. Un sistema all’apparenza inscalfibile crollò come un castello di carte nell’arco di pochi mesi. A sconvolgere il Paese fu Tangentopoli, il massacro giudiziario coordinato dalla Procura di Milano che ebbe inizio il 17 febbraio 1992, con l’arresto dell’esponente socialista Mario Chiesa.

Scomparivano a suon di martello i partiti che avevano guidato l’Italia per quasi quarant’anni e, insieme ad essi, intere classi dirigenti. Furono milioni gli elettori in libera uscita dal Pentapartito, rimasti orfani della tradizione cattolica, riformatrice e liberaldemocratica. Il fronte progressista di Achille Occhetto volle approfittare di questo vuoto di rappresentanza per imporsi come coalizione egemone: i post-comunisti e i loro alleati sembravano essere giunti ad un passo dal governo.

Duello a Roma

Uno tra gli appuntamenti elettorali più significativi di quell’anno fu il duello capitolino tra Francesco Rutelli, leader dei Verdi che aveva iniziato la propria militanza nel Partito Radicale, e Gianfranco Fini, segretario del Movimento sociale italiano. L’exploit del Msi fu tale da stravolgere ogni pronostico: la Fiamma superò per la prima volta la soglia del 30 per cento inglobando gran parte del consenso moderato.

Sebbene Rutelli abbia prevalso al ballottaggio con il 53,11 per cento dei suffragi, per Fini si trattò “non di una vittoria numerica, ma di una vittoria politica”, come affermò la notte del 5 dicembre 1993. Ecco il racconto di quella storica elezione vista da destra.

La candidatura di Fini

LORENZO CIANTI: Com’è nata la sua candidatura a sindaco di Roma?

GIANFRANCO FINI: L’elezione diretta del sindaco fu una svolta della politica italiana. Roma, insieme a Milano, Torino e Napoli, era la città più rilevante chiamata alle urne nel 1993. Da segretario del Movimento sociale italiano la mia prima preoccupazione era quella di trovare un candidato che potesse garantire un buon risultato nella capitale, dove il Msi si è sempre attestato tra il 10 e il 15 per cento. Inizialmente tentammo di verificare se era possibile il percorso di una candidatura civica di destra, ma invano.

Ragionai con alcuni esponenti del mondo cattolico che temevano la débâcle della Democrazia cristiana per trovare un profilo condiviso, capace di raccogliere il consenso tanto degli ex democristiani quanto dei missini, che volevano evitare un governo di sinistra a Roma. Tali incontri, che videro la partecipazione di Rocco Buttiglione e di altri cattolici successivamente confluiti in Alleanza nazionale, come Gustavo Selva e Publio Fiori, non determinarono alcunché. Nella Dc prevalse la linea della segreteria nazionale, allora presieduta da Mino Martinazzoli, mentre noi optammo per un candidato che fosse chiara espressione del Movimento sociale.

In un comizio a Piazza Tuscolo annunciai la mia candidatura e fu una sorpresa per tutti, a partire da un buon numero di dirigenti missini – non i più autorevoli. Lo feci perché pensai che bisognasse rischiare. L’entusiasmo con cui la folla, piuttosto cospicua, accolse il mio annuncio e le immediate adesioni nei giorni successivi mi indussero a sperare in un’affermazione elettorale: visti i risultati del 21 novembre posso dire che ciò avvenne.

Molti cittadini che non avevano mai simpatizzato per l’Msi manifestarono il loro appoggio nei miei confronti. Nacque così una seconda lista a sostegno della mia candidatura, Insieme per Roma, guidata dal liberale Enzo Savarese. Avevamo in mente una destra di marca conservatrice, non nostalgica.

Una destra di governo

LC: È passato alla storia il duello televisivo “L’ottavo re di Roma” contro il suo sfidante Francesco Rutelli, pochi giorni prima del ballottaggio. Un elettore democristiano dal pubblico affermò che avrebbe espresso la sua preferenza per Rutelli al secondo turno, rivolgendole questa obiezione: “Trovo che la destra di Fini sia immatura per governare Roma. Il Msi è più vicino a Le Pen di quanto non lo sia a Thatcher”. Crede che, in fin dei conti, non avesse torto?

GF: Non ne sono convinto. Al di là delle etichette o dei paragoni inverosimili con i modelli esteri, rimango sulla questione di fondo. L’esito del primo turno, che mi portò al ballottaggio e che vide la magra performance del prefetto Carmelo Caruso per la Dc, creò una situazione senza precedenti che in pochissimi immaginavano, accompagnata da un analogo risultato di Alessandra Mussolini a Napoli.

La riforma dell’elezione diretta del sindaco fece sì che i cittadini potessero scegliere direttamente l’amministratore della propria città, anche in virtù della sua collocazione politica. In precedenza i sindaci venivano eletti dai partiti che mettevano in piedi la maggioranza in consiglio comunale, non di rado dopo lunghe trattative. Questo radicale cambiamento della legge elettorale accentuò l’interesse dell’opinione pubblica, favorito dall’ascesa delle reti televisive private. Ricordo che trascorsi in televisione i quindici giorni prima del ballottaggio, in un costante face-to-face con Francesco Rutelli.

Il fatto di aver raccolto fin dal primo turno un consenso assai maggiore di quello tradizionalmente ottenuto dal Movimento sociale, emerso ancora di più con il risultato del 5 dicembre, testimoniò un’evidente apertura di credito da un elettorato che mai aveva votato a destra. Ciò indusse me ed altri, come Pinuccio Tatarella e il professor Domenico Fisichella, che nel 1992 aveva lanciato dalle colonne de Il Tempo l’ipotesi di un’Alleanza nazionale, a creare una nuova strategia. Questo clima mi motivò circa la necessità di riformare la destra italiana dando vita ad una formazione molto più ampia rispetto al Msi.

Le elezioni amministrative del 1993 fecero capire che erano maturi i tempi per il progetto venuto poi alla luce con la svolta di Fiuggi. Al di là dei casi emblematici di Roma e Napoli, nel centro-sud numerosi esponenti di prima linea del Movimento sociale furono eletti sindaci, anche in città capoluogo: cito Pasquale Viespoli a Benevento, Adriana Poli Bortone a Lecce, Silvano Moffa a Colleferro, Nicola Cucullo a Chieti, Ajmone Finestra a Latina, Salvatore Tatarella a Cerignola.

La discesa in capo di Berlusconi

Se, in modo del tutto imprevedibile, l’Msi aveva eletto i suoi primi sindaci, a maggior ragione c’erano dei motivi per pensare di ampliare ulteriormente il bacino elettorale della destra definendo meglio la sua cultura politica e i suoi valori di riferimento.

Sull’onda di questo successo, salutato come una grande novità, Silvio Berlusconi scese in campo dichiarando: “Se fossi a Roma voterei per Fini”. Berlusconi aveva capito che era necessario compiere qualcosa di clamoroso per sconfiggere la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto, data per vincente alle successive elezioni politiche, e così fece. Con le amministrative del 1993 il seme di Alleanza nazionale non solo fu ben piantato a terra, ma diede i suoi frutti in tempi rapidi. Poi venne la vittoria del marzo 1994 con l’alleanza a due velocità Forza Italia-Lega al nord e Forza Italia-An al centro-sud, ma questa è un’altra storia.

Il crollo dell’affluenza

LC: Sembrava che l’elezione diretta del sindaco potesse garantire un maggiore coinvolgimento della società civile grazie alla personalizzazione dello scontro politico. Oggi sperimentiamo il tracollo dell’affluenza nelle tornate comunali e regionali. A suo avviso, perché è successo?

GF: In primo luogo perché le novità si consumano in fretta. Nel 1993 l’elezione diretta del sindaco fece balzare in avanti la quota di partecipazione al voto. A mio modo di vedere, però, questa riforma non è stata seguita da altri interventi e da una gestione della cosa pubblica tale da continuare a tenere desta l’attenzione dei cittadini. Viviamo in una fase post-ideologica, in cui il confronto è di tipo esclusivamente programmatico.

La cosiddetta Seconda Repubblica è andata in stallo: ha perso quella capacità innovativa che tutti speravano potesse avere. Infine, bisogna ricordare l’influenza negativa che ha avuto la stagione dei governi tecnici, lontani dall’espressione della volontà popolare.

Il sindaco d’Italia

LC: L’idea del sindaco d’Italia può rappresentare una via d’uscita dalla stasi degli ultimi anni?

GF: Il sindaco d’Italia è la stessa espressione con cui in certi momenti si indicava ciò che oggi il governo ha intenzione di portare avanti, cioè il premierato. I nomi sono importanti, ma sono ancora più importanti i contenuti delle riforme istituzionali.

Bisogna vedere come procederà il dibattito parlamentare e se verranno applicate eventuali correzioni al disegno di legge. Il principio dell’elezione diretta del capo del governo, che potremmo considerare una forma molto indiretta di presidenzialismo, lo condividevo ieri e lo condivido ancora oggi. In termini di iter parlamentare vedremo quale sarà il risultato finale e se ci sarà o meno un referendum confermativo.