Politica

I contribuenti non pagano il Festival per farsi ammaestrare da Ghali

Nella libertà dell’artista non rientrano commenti e slogan politici: una cosa è un palco “privato”, un’altra una manifestazione pagata con i soldi dei contribuenti

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Confesso di non aver visto il Festival di Sanremo, non mi sento, dunque, di esprimere alcun giudizio sul livello qualitativo della kermesse, se non con riguardo al commento sfuggito a Ghali, dopo aver eseguito la sua suggestiva canzone, per quella frase dal sen fuggitagli di “stop al genocidio”; neppure in sé e per sé per quella frase, ma per la tempesta che ha suscitato, alimentando la ormai cronica guerriglia fra destra e sinistra.

La libertà dell’artista

La questione sollevata era ed è di estrema importanza, riguardava né più né meno la libertà di cui all’art. 21, comma 1, “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, espressione quest’ultima omnicomprensiva, quindi estesa ad ogni manifestazione artistica.

Bisogna, però, distinguere, nella libertà dell’artista a seconda che gli competa in rapporto alla sua attività di pittore, scultore, cantante, ballerino ecc., ovvero in rispetto alla sua condizione di cittadino. Distinzione, questa, che, prendendo come referente il cantante, significa che la sua canzone non può essere censurata, ma non ne deriva che la possa accompagnare con commenti personali qualunque sia la sede in cui la canta.

Una cosa è se il palcoscenico è un concerto organizzato da lui o da altri, ma soprattutto se su un palcoscenico “privato” o “pubblico”, quest’ultimo soggetto a criteri di par condicio. Il Festival di Sanremo in testa a Rai può essere certamente considerato un palcoscenico “pubblico”, sia per chi lo finanzia sia per la gente che riesce a mobilitare, 14 milioni di persone, tutto quello che deve essere detto lo deve essere nelle canzoni, senza aggiungervi battute che puzzano di esibizionismo, ma comunque suonano parziali, divisive, faziose rispetto al tema trattato.

L’esistenza di Israele

Come deve essere giudicata la battuta del nostro cantante, “stop al genocidio”? Ora non interessa tanto offrire una definizione di genocidio, basta ricordare i due che hanno consolidato questo giudizio nella storia del Novecento, la Shoah e la tragedia armena, sì da poterli portare a criterio comparativo con quello palestinese, con riguardo alla finalità perseguita: “soluzione finale”. È chiaro che questo si intendeva evocare dinnanzi ad un Paese che vive traumaticamente l’estrema difficoltà di conciliare la sopravvivenza di Israele e la soluzione della questione palestinese.

Si può convenire che la Shoah non può costituire una sorte di giustificazione a priori di qualsiasi attività svolta da Israele, ma certo della sua esistenza, perché quando questa è messa in dubbio o negata, come fa apertamente Hamas, con la solidarietà aperta o sottobanco di molti Paesi arabi, allora si sfocia inevitabilmente nell’antisemitismo.

I discendenti di Mosè non hanno luogo in cui dimorare su questa terra. Soprattutto chi milita a favore di una pace, non conseguibile con la mera formula dei due Stati, senza un’accettazione dello Stato di Israele da parte della comunità araba, dovrebbe muoversi con molta prudenza, che certo manca quando si diffondono slogan fatti propri da una sinistra estrema.

Se qualcuno non lo fa, dovrebbe essere richiamato dal conduttore che è responsabile della libertà degli utenti di un servizio pubblico che pagano di tasca propria, quella stessa per cui a milioni si sono seduti di fronte al video, non certo per essere “ammaestrati” fuori programma.