Posto che la tragica vicenda dalla giovane Giulia Cecchettin in altri tempi sarebbe stata considerata essenzialmente un caso di cronaca nera ed avrebbe suscitato sia nei commentatori che nei loro lettori e/o ascoltatori soprattutto il sentimento di umana pietà per la vittima e quello di doverosa condanna per l’autore dell’omicidio, e che in ogni caso a modesto parere di chi scrive avrebbe meritato soprattutto un rispettoso silenzio, il clamore politico ed ideologico che (anche a causa della coincidenza con la giornata mondiale contro la violenza sulle donne) si è sviluppato in questi giorni merita qualche riflessione.
Degenerazione woke
Mi riferisco al fatto che il modo con il quale il caso è stato trattato da gran parte dei mass e social media nonché dalla stragrande maggioranza degli attivisti scesi in piazza rappresenta un rovesciamento e una degenerazione rispetto ai principi con cui sino a poco tempo fa si era soliti porsi in rapporto con simili tragedie.
E personalmente ritengo che questa che ho chiamato degenerazione abbia la sua causa ultima nell’impatto della ideologia woke sul modo di ragionare di gran parte delle élites massmediatiche, politiche e, in senso ampio culturali, una ideologia che nonostante rimanga minoritaria a livello sociale, finisce per essere non dico dominante, ma certo sovresposta a livello comunicativo, e che proprio per questo va analizzata e criticata in quanto essa rischia di distruggere quasi tutto ciò che di buono la tradizione moderna della cultura progressista e del femminismo “classico” aveva creato.
Innanzitutto, è una questione di tempi e modi: anche in passato vi furono manifestazioni femministe organizzate sull’onda di eventi drammatici, ma furono molto più rare e soprattutto erano dirette più a segnalare i problemi delle donne che ad individuare immediate soluzioni, le quali venivano giustamente prese dopo analisi ponderate della realtà a soprattutto frigido pacatoque animo, con animo freddo e pacato.
Ora invece, a vicenda appena conclusa, già il governo, non immune anch’esso dalle influenze della cultura woke e forse troppo propenso ad assecondare il clamore mediatico, ha già deciso di proporre una sorta di “educazione sentimentale” nelle scuole disposta dall’alto, cosa un po’ troppo vicina al concetto di stato etico per poter essere approvata.
Inoltre, la protesta formalmente in favore delle donne si è trasformata in protesta politica: anche in passato ovviamente i movimenti femministi si appoggiavano ai partiti progressisti e criticavano quelli conservatori, ma sempre nei limiti delle loro rivendicazioni: nessuno si sarebbe mai sognato di definire “crimine di stato” la morte di una ragazza per mano del suo ex né di definire come esponente del “patriarcato” (termine che sta diventando buono per tutti gli usi, come quello di “fascismo”) ad esempio una presidente del consiglio donna.
Atteggiamento questo peraltro simile a quello dei movimenti “antirazzisti” statunitensi che quando vengono contestati, come avviene sempre più spesso dagli afroamericani, rispondono che questi ultimi “non sono neri dentro”, ragionamenti questi entrambi tipici della cultura postmoderna che non riconosce alcuna verità oggettiva “ragionevole” con la quale ci si debba confrontare.
Quello che dicono
Ma i peggiori influssi della cultura woke si vedono nei contenuti della protesta, tanto in ciò che viene detto (meglio sarebbe dire “urlato” nella piazze e nei titoloni) quanto in ciò che viene taciuto. Cominciamo con quello che viene detto. Che nel femminismo ci sia da sempre una critica (anche a volte esagerata nei contenuti, a volte troppo calcata nei toni) verso il mondo sociale maschile è inevitabile, in parte per ragioni oggettive (i torti commessi dal maschilismo verso il “gentil sesso”) in parte perché nelle contrapposizioni vengono in luce gli estremismi di entrambe le posizioni, comprese quelle femminili.
Rimane un fatto però, che il femminismo classico ha sempre considerato la critica alla mentalità maschilista come strumentale al fine di far valere i propri diritti, e nelle menti più illuminate anche come un modo per migliorare i rapporti tra i sessi dal punto di vista sociale ed umano: questo perché il femminismo classico aveva dei valori “in positivo”, magari discutibili ma li aveva, in relazione ai quali orientare la propria azione.
La cultura woke invece si basa su una concezione sostanzialmente di tipo nichilista, nel senso che la stessa è portata soprattutto a criticare in negativo le realtà umana e sociale, nella convinzione che basti eliminare il presunto male per realizzare il mondo perfetto. Di conseguenza, la critica al mondo sociale maschile perde il suo carattere di strumento e diventa il fine e il contenuto principale degli slogan, e più a monte del pensiero femminista in versione woke.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti: dai cartelli esagitati che invitano le “sorelle” a “distruggere”, agli stereotipi sugli uomini “tutti violenti e prepotenti”, che ricordano le battute grevi del maschilismo di un tempo sulle donne “tutte ….. questa o quella cosa”, alle analisi dettagliate che dall’alto della propria visione postmoderna “decostruiscono” una cultura di secoli prendendosela persino con l’uso nominale dei participi “maschilisti”, quali ad esempio “presidente” (participio valido per entrambi i generi già in latino).
La “colpa di autore”
Lo spettacolo non è edificante, e se per ora questi nella maggior parte dei casi restano soprattutto degli slogan o delle elucubrazioni intellettuali, si deve tenere presente che qualora venissero calati nella realtà (il che spesso avviene in maniera graduale quasi inavvertita) gli effetti sarebbero devastanti. Si pensi ad esempio alla responsabilità penale basata sul solo fatto di essere maschio ed estesa ad atti poco più che maleducati, invocata con sconcertante leggerezza da alcune attiviste.
Si ricadrebbe facilmente in un concetto di colpevolezza penale che fu tipico della Germania nazionalsocialista (ed è la seconda volta in pochi mesi che si finisce per riesumare concetti nazisti, dopo gli slogan antiebraici), il concetto di “colpa di autore”, secondo il quale un soggetto non viene punito per le azioni illecite commesse, ma per il suo modo di essere, in questo caso per il suo essere “patriarcale”.
Quello che non dicono
Ma i movimenti femministi in versione woke sono però pericolosi anche per ciò che non dicono, e non lo dicono perché la cultura postmoderna, basata come detto sulla pura negazione nichilista del presunto male e sganciata da ogni legame con la ragionevolezza (considerata una fonte di oppressione rispetto al pensiero soggettivo), finisce spesso per voltare le spalle, per rifiutare addirittura di prendere in considerazione la realtà e di fare paragoni e accostamenti che il buon senso e l’equità morale imporrebbero di fare.
Le femministe classiche hanno sempre basato e tuttora basano le loro idee su una realtà oggettiva, la diversità dei sessi, una realtà che limitatezza della condizione umana non consente di modificare, salvo casi particolari di lunghi e rispettabili percorsi medici e chirurgici. Il femminismo woke è invece in prima fila (contraddicendo la sua stessa denominazione) nel negare la differenza tra uomini e donne e nel ridurre il genere ad un sentimento soggettivo, il che se è rispettabile a livello personale, è pericoloso se imposto a livello sociale, come avverrebbe se fosse prescritta per legge la rincorsa a riconoscere le sempre nuove sigle con cui esprimere le particolarità di genere.
Esempio di questa enorme pecca del femminismo woke è il silenzio sui casi di violenza (agevolati dalla errata previsione di spazi comuni, nello sport, nelle strutture penitenziarie ecc.) sulle donne operate dai maschi transgender, i quali non essendo patriarcali “dentro”, non vengono condannati moralmente. Ancora peggiore è un altro silenzio, con il quale si spera che prima o poi i movimenti femministi postmoderni trovino il coraggio intellettuale di confrontarsi, quello relativo alle violenze commesse sulle donne dagli uomini di cultura non occidentale, che invece il femminismo classico di ieri e di oggi è sempre stato in prima fila a condannare.
La causa di questo triste (mi si permetta di usare questo termine) silenzio è di nuovo la cultura woke, che messa a confronto con due negazioni in concreto in contraddizione tra loro, quella del predomino maschile e quella del predominio occidentale, finisce per privilegiare la seconda, di modo che le violenze sulle donne compiute ad esempio da quegli immigrati (non tutti, ma non certo pochi, purtroppo) che sono imbevuti di concezioni violente (quelle sì) verso il sesso femminile, non vengono attaccate perché questo sarebbe considerato una critica “razzista” rispetto alla loro diversità culturale, ma sono spesso scusate, talora anche dal punto di vista giuridico-penale.
Tenendo conto che in sempre più zone delle grandi città europee (comprese quelle italiane) le donne hanno quasi timore di subire aggressioni se escono di casa vestite in maniera innocente per la nostra cultura, ma immorale per quella di molti immigrati, e che proprio in tali ambiti avvengono gran parte delle violenze (non rilevate o relegate in trafiletti dai giornali), il silenzio del femminismo woke diventa veramente sconcertante, così come è ancor più sconcertante la sottovalutazione delle orribili violenze compiute sulle donne israeliane dai terroristi di Hamas, verso i quali, non essendo essi occidentali, alcune esponenti dei movimenti femministi in versione woke hanno avuto un atteggiamento indifferente se non benevolo.
Società a pezzi
Nei decenni passati, grazie all’operato di molte esponenti femministe e a quello dei politici (di entrambi in sessi) che ne condividevano le idee, la condizione delle donne è enormemente migliorata anche con riferimento alla loro tutela di fronte ai casi di violenza.
Molte cose ovviamente sono tutt’oggi da modificare, sia i residui dell’antico maschilismo, sia le esagerazioni in senso opposto, quando le donne hanno finito per fare propri i peggiori difetti maschili nella gestione dei rapporti umani, ma resta il fatto che il femminismo classico, basato (nonostante alcune esagerazioni) sulla ragionevolezza e sul principio della responsabilità individuale ha contribuito non poco al progresso della civiltà sociale moderna.
Invece il femminismo in versione woke, basato sulle idee postmoderne, se prendesse definitivamente piede radicandosi nelle istituzioni giuridiche e politiche, porterebbe dal punto di vista delle relazioni tra i sessi (ma il discorso potrebbe essere generalizzato parlando della cultura woke riguardo a tutte le categorie sociali) alla creazione di una società spezzettata in tutta una serie di gruppi (maschi occidentali e non, femmine occidentali e non, transgender, queer ecc.), ciascuno regolato dalla proprie leggi particolari (per rispetto alla loro “diversità”).
Una società nella quali i diritti di tutti finirebbero per essere stabiliti in maniera discrezionale diversa da caso per caso da appositi mediatori politici e giuridici (operatori sociali, magistrati, politici ecc.), così come avveniva qualche secolo fa ad esempio nelle società confessionali gestite dai mediatori ecclesiastici e nobiliari.
Per questo, con tutto il rispetto che si deve avere per le convinzioni altrui, le concezioni proprie del femminismo woke non possono essere accettate perché esse contribuirebbero a sfasciare (o a “decostruire”, per usare la loro terminologia) la società liberal-democratica moderna che per quanto imperfetta e migliorabile, rimane preferibile rispetto a tutte le altre, come da sempre anche il femminismo classico ha riconosciuto.