I veri valori del 25 aprile incarnati da Arpinati e Nanni

Capaci di anteporre l’amicizia al fatto di trovarsi su fronti opposti. Una vicenda nobile e tragica che dovrebbe essere il vero messaggio della Liberazione

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La ricorrenza del 25 aprile avrebbe dovuto diventare la festa comune degli italiani, la celebrazione della fine della tragedia della guerra alla quale la dittatura fascista, seguendo la “irresistibile ascesa” della Germania hitleriana aveva condotto il Paese, guerra che poi, mentre gli eserciti alleati e quello tedesco si combattevano sul suolo italiano, si era trasformata nel nord Italia in una vera e propria guerra civile.

Una ricorrenza che, grazie anche ad una visione più pacata sugli avvenimenti del passato determinata dallo scorrere del tempo, avrebbe dovuto portare tutti gli italiani a riconoscersi nella guerra giusta combattuta contro il nazifascismo (la “Resistenza”), ma anche a condannare le violenze ingiuste ed efferate che furono compiute da entrambe le parti ai danni di civili nonché di nemici ormai inermi.

Degenerazione woke

Il 25 aprile avrebbe dovuto diventare la festa comune delle persone di destra quanto di quelle di sinistra, ma questo processo di “pacificazione” degli animi è stato interrotto e per molti versi rovesciato dall’attecchire in gran parte delle élites culturali e politiche della cultura woke, una cultura che sempre più, in nome della tolleranza predica l’odio verso chi la pensa diversamente e, in nome della libertà cerca di soffocare il pensiero altrui.

Molto sarebbe da dire su questa degenerazione della cultura e della vita sociale che porta molti ad usare il termine “fascista” per criticare gli avversari politici, senza nemmeno avere studiato a scuola il fascismo (è il caso di molti opinionisti e politici) oppure (è il caso di molti “intellettuali”) senza avere mai fatto un ragionamento “ponderato” capace cioè, come dice il senso etimologico del termine, di mettere insieme e di dare il giusto peso a nozioni raffazzonate e che spesso stravolgono il valore dei fatti, esagerandone o sminuendone l’importanza, a seconda della propria impostazione ideologica.

Una impostazione che, se applicata a ciò che il 25 aprile commemora, diventa estremamente divisiva e, anche quando non sconfina addirittura nell’antiebraismo (che fu proprio del nazifascismo che tanto si critica) o nell’antiamericanismo (si leggono critiche tanto grossolane sulla democrazia americana, quanto quelle che furono tipiche del Ventennio), finisce per stravolgere sia la storia che l’attualità.

Per ricordare quei tempi tragici, che per fortuna ormai quasi nessuno di noi ha vissuto, e per riprendere quello che a mio modesto parere dovrebbe essere il messaggio della ricorrenza del 25 aprile, cioè il rispetto reciproco “paritario” e la collaborazione in base a valori comuni pur nella inevitabile divergenza di opinioni e scelte, tra le diverse parti politiche (i valori tipici della democrazia liberale) vorrei ricordare una vicenda politica, ma prima di tutto umana, nota a molti studiosi ma forse ignota o trascurata del grande pubblico.

L’amicizia tra Arpinati e Nanni

Una vicenda tragica che parla dei più nobili valori umani e che ci dimostra, per riprendere una famosa espressione dello storico latino Tacito (54 – 120) che “anche sotto cattivi governanti possono vivere grandi uomini” (Agricola 42,5), capaci di anteporre non solo il rispetto ma anche l’amicizia al fatto di trovarsi su fronti opposti in periodi di tragica violenza.

Forse qualcuno lo avrà già capito che intendo riferirmi al nobile e tragico rapporto di amicizia, che definire “fraterna” è forse esagerare per difetto, che legò tra loro Leandro Arpinati (1892 – 1945) e Torquato Nanni (1888 – 1945), due militanti del Partito socialista all’inizio del secolo, il primo proveniente da concezioni anarchiche e il secondo legato ad idee social-rivoluzionarie, ma entrambi contrari allo stato “borghese” della tradizione liberale ottocentesca (in particolare alla sua versione italiana).

I due amici erano entrambi romagnoli, entrambi dotati di una buona formazione intellettuale, che faceva di loro dei giornalisti capaci di creare idee e dei politici capaci di provare ad attuarle; entrambi entrarono ben presto in confidenza con Benito Mussolini (1883 – 1945), quando quest’ultimo era a sua volta socialista e direttore dell’Avanti!, e di fatto divennero suoi seguaci, anche quando il futuro duce prima sollecitò e poi appoggiò l’intervento italiano nella prima guerra mondiale e, lasciato il partito socialista, schierato su posizioni pacifiste, abbandonò l’Avanti per fondare un nuovo giornale, Il popolo d’Italia, nel 1914. Nanni, avvocato, fu uno dei primi sindaci socialisti d’Italia e fu il primo a scrivere nel 1915 una breve biografia di Mussolini; anche Arpinati in questo periodo si distinse per i suoi articoli e interventi.

Su fronti opposti

Dopo la tragica esperienza della guerra, che sembrò avere creato più problemi all’Italia di quanti ne avesse risolti, iniziò com’è noto un periodo di disordini sociali che, di fronte ad uno stato incapace di gestire la democratizzazione portata dal suffragio universale maschile introdotto nel 1918, videro contrapposti gli attivisti socialisti da un lato (molti storici chiamano gli anni 1919-20 il “biennio rosso” a motivo delle proteste di questi ultimi alle quali spesso seguirono azioni violente, mirate ad una futura rivoluzione, sull’esempio di quella russa), ed un un nuovo gruppo di attivisti dall’altro, raccolti in squadre (da cui il termine “squadristi”) che si contrapponevano alla lotta di classe socialista e comunista in nome di una società diretta dall’alto e si ispiravano alle idee di un Mussolini ormai staccato dal socialismo e divenuto la guida (il “duce”) di un movimento di destra basato su un simbolo tradizionale del potere pubblico, i “fasci” cioè le armi  portate dalle guardie d’onore dei magistrati romani (i “littori”) e che perciò fu chiamato “fascista”.

In quegli anni di disordini e di scontri i due amici, senza però mai cessare di essere tali, si collocarono su fronti opposti: mentre Nanni rimase socialista (nonostante il dissenso passato sulla guerra) e pur senza partecipare agli scontri appoggiò la rivendicazioni che molti degli attivisti violenti sostenevano, Arpinati seguì fino in fondo Mussolini e aderì al fascismo, partecipando alle azioni degli squadristi, anche se ad onor del vero la sua azione violenta si limitò soprattutto ad atti di difesa degli interessi e delle persone sostenuti dal nuovo movimento nei confronti della violenza della fazione opposta.

Alla fine, com’è noto grazie all’appoggio dell’apparato statale e delle élites sociali ed economiche di allora furono le violenze fasciste a vincere e a farne le spese fu lo stesso stato democratico, che in via del tutto legale dal punto di vista formale fu piano piano inghiottito dalla dittatura. Il momento decisivo fu ovviamente la “marcia su Roma” (22 ottobre 1922) dei fascisti e durante la stessa si verificò il primo episodio che coinvolse i due protagonisti di questo breve scritto.

La frange più violente degli squadristi catturarono il socialista Nanni e, pare con il consenso tacito dello stesso Mussolini che così ripudiò il suo antico seguace, lo richiusero in un luogo sicuro con l’intenzione di eliminarlo facendone sparire il corpo. Intervenne però l’amico Arpinati che, addirittura minacciando uno scontro fisico con i suoi “uomini” e facendosi forte del suo rapporto con Mussolini, costrinse gli squadristi radicali a rilasciare Nanni salvandogli la vita, un atto nobile che l’amico non avrebbe dimenticato e che avrebbe segnato il tragico destino di entrambi.

Ascesa e caduta

Nei primi anni del regime fascista Arpinati, grazie anche al citato rapporto privilegiato con il duce fece una brillante carriera: nel 1926 fu podestà di Bologna, nel 1929 divenne addirittura sottosegretario agli interni, in sostanza con funzioni di ministro. Le sue posizioni però, troppo legate alle concezioni anarchiche della sua giovinezza (oggi lo potremmo definire un “libertario” o un “anarco–capitalista”), e quindi tendenzialmente contrarie alla concezione gerarchica e corporativa che il fascismo aveva fatto propria ne determinarono la caduta.

Inviso al potente gerarca Achille Starace (1889 – 1945), fu costretto alle dimissioni nel 1933, quindi, sospettato di tramare contro il regime, fu addirittura inviato al confino (1934-35) e quando riuscì a tornare libero si dedicò alla gestione della propria azienda agricola a Malacappa in provincia di Bologna senza più occuparsi di politica.

Quanto a Nanni, durante il Ventennio continuò la sua attività di pubblicista e, anche grazie alla protezione di Arpinati, scrisse opere di argomento politico tra cui un interessante accostamento tra il leninismo ed il fascismo che cercava di individuarne i punti in comune e le differenze nonché opere critiche nei confronti del governo: oggi lo potremmo definire un socialista rivoluzionario antistatalista.

Con la caduta del suo “protettore” Arpinati, questa attività cessò e dopo essere stato inviato a sua volta al confino (nel 1934), si ritirò anche lui a vita privata. Dopo la caduta del fascismo Nanni riprese però a pieno titolo il suo ruolo di attivista e di pensatore socialista: già il 25 luglio 1943 tenne un improvvisato comizio a Bologna sulla necessità del ritorno alla democrazia e, in seguito all’instaurazione nell’alta Italia della Repubblica sociale italiana entrò decisamente in clandestinità e collaborò attivamente con la Resistenza.

Dal canto suo, Arpinati, pur sollecitato personalmente da Mussolini (memore forse dall’antica amicizia), ad assumere un incarico ministeriale nella “Repubblica di Salò”, oppose un netto rifiuto ritenendo che troppo grande fosse l’influsso esercitato sulla stessa dall’invasore tedesco, e grazie alla perdurante amicizia con Nanni, collaborò addirittura con i partigiani, aiutando alcuni ufficiali inglesi a sfuggire alla cattura.

La tragica fine

Il destino dei due amici non fu però quello di sopravvivere alla guerra civile che si era scatenata, la quale come detto accanto a persone che combatterono per difendere i loro ideali in maniera corretta e rispettosa, dal punto di vista militare, del nemico, vide gruppi che per motivi personali o per bieca ideologia si abbandonarono a violenze efferate.

Capitò anche tra coloro che stavano dalla parte giusta: il 22 aprile 1945, il giorno dopo la liberazione di Bologna, un gruppo di partigiani comunisti tra i più violenti, memori del passato fascista di Arpinati lo prelevarono e, senza nemmeno un minimo processo, lo condannarono a morte per fucilazione. Saputo del fatto, intervenne l’amico Nanni, certo di poter rendere il favore ottenuto nel 1922, ma non fu così: la condanna fu confermata e il socialista Nanni che in un estremo e disperato si era lanciato per far scudo con il proprio corpo all’amico, fu ucciso insieme al fascista Arpinati.

Il primo a ricordare questo tragico, ma eroico episodio fu il “poeta pazzo” Ezra Pound (1885 – 1972), che com’è noto visse anch’egli in Italia in quell’epoca e fu legato alla parte sbagliata, che parlò della fine dei due amici nei “Canti” (canto n. 91). Negli anni si sono poi susseguiti studi più o meno specialistici sulla vita e sul pensiero, nonché sul reciproco legame di Arpinati e Nanni. Della loro tragica fine ha parlato anche Giampaolo Pansa (1935 – 2020) nella sua importante opera sulla guerra civile “Il sangue dei vinti” del 2003 (parte IV capitolo 1).

Rimane da chiedersi quale importante contributo avrebbero potuto dare i due amici nell’Italia repubblicana del Dopoguerra a quello spirito di tolleranza e di cittadinanza comune, su cui si deve fondare ogni democrazia liberale e che dovrebbe essere il vero messaggio della ricorrenza del 25 aprile, portando al rifiuto di tutte le idee potenzialmente totalitarie, anche di quelle che iniziano con la parola “anti-qualcosa”. Ma se chi scrive è riuscito a descriverli in maniera anche solo parzialmente adeguata, ulteriori parole sono inutili perché i fatti qui ricordati parlano da soli.

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