Passano gli anni, ma il meccanismo è sempre lo stesso: sbattere il mostro in prima pagina; processarlo nei talk show, dove il giudizio dei magistrati è sostituito da opinionisti e psichiatri in cerca di visibilità; dimenticarsi – dopo poco tempo – della vicenda in modo così naturale come si beve un bicchiere d’acqua.
Il diritto di cronaca, in questo modo, ha subito una distorsione. Laddove ha sostituito il diritto di informare (dei fatti) con il potere di instaurare un giudizio – trasversalmente mediatico – di un potenziale imputato.
L’indagato che subisce misure cautelari personali è spesso descritto dai media nei termini di un condannato. Esposto ad una pubblica gogna che rimanda alle grandi scene dei supplizi, descritte dal filosofo Michel Foucault nel secolo scorso.
La pornografia del dolore
Di più, assistiamo ad una pornografia dei sentimenti: quando si tratta di delitti contro la persona, vanno in onda programmi che raccontano – minuziosamente – la scena del delitto, i retroscena, il contorno familiare di riferimento del presunto mostro.
Questo storytelling macabro, ripetitivo, ossessionato dal crimine, dalla devianza, non ha evidentemente raggiunto quelli che potevano essere due obiettivi desiderabili: da un lato la dissuasione, ovvero il timore che dovrebbe scaturire dall’applicazione della legge in risposta al compimento di un reato; dall’altro un esercizio apotropaico, di esorcizzazione della paura collettiva.
Al contrario questo rituale attivato dai media, pornografia del dolore e dell’orrore, sta fecondando nella società civile una sensazione di insicurezza sempre maggiore. Nessuna catarsi, nessun esorcismo del male: bensì cassa di risonanza, camera dell’eco che amplifica il messaggio della violenza, la rende una categoria standard, inserita nelle pieghe – che si rendono disponibili ad accoglierla – della società.
La politica come narrazione
Queste considerazioni, forse sottili e sofisticate, non potrebbero rientrare in un discorso politico che è inserito, ormai da alcuni anni, nel frame vincolante di una comunicazione in formato “user friendly”. Il discorso politico – diventato (puro) discorso mediatico – non può più permettersi il lusso del ragionamento.
Si potrebbe riconsiderare la nozione di politica stessa: da esercizio e gestione del potere a sua narrazione costante, costruzione di immaginari che attivano forme di appartenenza istintive, automatiche. Ma non è questo il luogo idoneo a tali esercizi speculativi.
Si deve invece tornare all’incapacità del discorso pubblico relativo ai casi di cronaca nera di assolvere una funzione socialmente utile; al carattere inorganico di una legislazione penale che si vuole sempre più repressiva, ma incapace di rispondere alle esigenze di una società lacerata, dal punto di vista economico e culturale; al funzionamento paludare, macchinoso, di un ingranaggio mediatico-giudiziario giunto ad un punto di saturazione.
Le riforme non bastano
L’ottica assunta ci consente di comprendere che, con grande probabilità, non basteranno delle leggi o comunque – seppure pienamente auspicabili – delle grandi riforme strutturali. Queste serviranno ad aumentare le garanzie dei cittadini, celebrare i processi entro termini ragionevoli, elevare gli standard di libertà individuale, porre delle carriere fisse (non scorrevoli) all’interno del potere giudiziario.
Ma non riusciranno ad eradicare un sostrato culturale permeato – nell’arco degli ultimi quarant’anni – da forti ondate di giustizialismo o populismo penale. Questo perché la notizia di un reato sarà sempre più appetibile – dal punto di vista mediale – di tante altre notizie. E la comunicazione politica non smetterà di riprendere, rincorrere freneticamente i temi dettati da un sistema turbo o ipermediale, ovvero un sistema in cui ogni notizia è superata da quella successiva nell’arco di pochi giorni.
Il codice penale non basta
L’inasprimento delle pene per reati già esistenti, l’inserimento di nuovi reati, non aumenterà le difese immunitarie contro gli illegalismi, poiché la cultura della legalità si può infondere sono avvicinando il cittadino allo Stato. Mentre la penalizzazione tende a creare dei fossati, dei solchi abissali che isolano alcune fasce di popolazione.
La penalizzazione non solo non diminuisce i tassi di criminalità; piuttosto crea delle sacche concentrate, dense, dove la criminalità si intensifica per dei fattori ambientali e sociali che pesano come un macigno.
La demografia della popolazione “criminale” ci restituisce un grande dato di fondo: minori sono le capacità culturali, sociali degli individui, maggiori sono le probabilità che questi ultimi commettano dei reati.
Tale ragionamento non è nell’ordine della giustificazione delle condotte individuali delittuose. Si tratta di evidenziare che esistono delle responsabilità sociali nella produzione differenziata degli illegalismi; che un reato non si può combattere solo con il codice penale, ma anche e soprattutto con delle politiche che ne eliminano – o comunque ne riducono di molto – l’interesse, la ragione, la necessità.
Errori giudiziari impuniti
Si dovrebbe perfino avere il coraggio di mettere in discussione il nostro sistema carcerario, a tratti fatiscente e degradato, incapace di raggiungere (nei fatti) il valore costituzionalmente rilevante della “rieducazione”.
Alzare sempre di più il grido di sdegno verso gli errori giudiziari, per troppo tempo rimasti impuniti. Da tali errori, sovente avviati da una cultura del sospetto e una pratica penale inquisitoria, deriva il disallineamento tra verità e giustizia e la conseguente sfiducia nei confronti della giustizia. Ma l’effetto giuridicamente più rilevante è quello di una violazione della dignità della persona umana, ovvero violazione del diritto che è architrave, elemento primigenio di una società fondata sullo stato di diritto, sui valori democratici e liberali.