La Lombardia resta al centrodestra e riconferma Attilio Fontana nel ruolo di presidente (governatore). Ma Milano è un altro mondo. Infatti, nel capoluogo lombardo ha vinto Pierfrancesco Majorino con un buon margine di vantaggio rispetto allo sfidante del centrodestra: il 46,8 per cento contro il 37,7. Letizia Moratti, distaccata, arranca con un 13,8 per cento scarso.
Un seggio in Città Studi
Per chi vive nella metropoli meneghina, il dato lombardo può risultare sorprendente. Chi scrive ha lavorato come scrutatore in un seggio del quartiere Città Studi. Lo spoglio era praticamente una conta dei voti del Pd.
Non solo il partito di sinistra aveva una maggioranza schiacciante (circa il doppio dei voti presi da Fratelli d’Italia), ma qualitativamente superiore: c’era una vera competizione anche nelle preferenze. Vuol dire che gli elettori non solo sapevano quale partito votare, ma anche chi li rappresentava.
Il contrario, ad esempio, della Lega che nel seggio in questione non ha avuto nemmeno un solo candidato indicato, cosa che denota un voto meno partecipato, molto più distratto. Usciti dal seggio, quel 54 per cento a Fontana della prima proiezione era come un risultato di un altro mondo.
Ma perché Milano va a sinistra, quando tutta la Lombardia resta a destra? Perché nemmeno il Terzo polo di Moratti e Calenda (almeno al di fuori della Ztl) costituisce un’alternativa al Pd? “L’ottimo risultato della città di Milano dove siamo saldamente in testa rispetto a Fontana, nonostante la presenza di Letizia Moratti, unitamente a quanto sta avvenendo in altre città è la conferma della ricchezza rappresentata dalle nostre esperienze di governo”, commentava a caldo Majorino subito dopo la pubblicazione dei risultati.
Il perfetto candidato woke
Ma di quali “buone” esperienze di governo parla? Nel suo curriculum il candidato Majorino viene dall’estrema sinistra del Pd, in queste elezioni si è candidato assieme al Movimento 5 Stelle, il partito del reddito di cittadinanza, lanciando un segnale chiaro su dove debba andare la sinistra.
Ha fatto opposizione anche nel suo stesso gruppo, presentandosi (e perdendo) contro Sala nelle elezioni comunali del 2016. Conosciuto come uomo del terzo settore, assessore alle politiche sociali, nel suo curriculum vanta l’istituzione del Registro delle Unioni Civili, il Registro delle dichiarazioni anticipate di fine vita e la Casa dei Diritti (“per il contrasto alla violenza di genere e la tratta degli esseri umani”).
È il profilo del perfetto candidato woke, lontano mille miglia da quel che si potrebbe pensare di Milano, città capitale economica per eccellenza. È anche lontano dal territorio: dal 2019 è stato eletto al Parlamento europeo.
Cosa succede a Milano?
Che cosa succede, a Milano, di preciso? Un dato che spicca è quello della bassa affluenza, solo il 42,1 per cento degli aventi diritto ha votato. Quindi si potrebbe pensare che il Pd ha più capacità di mobilitare i suoi? Questo è vero solitamente, ma in questa tornata elettorale il dato dell’affluenza non è significativo: nel resto della Lombardia, infatti, il dato dell’affluenza è ancora più basso (41,1 per cento), eppure il centrodestra ha trionfato.
Tolta la spiegazione dell’affluenza e della mobilitazione di partito, resta una spiegazione economica e sociale. Ma allora Milano vive di terzo settore, adesso? Le politiche sociali di Majorino hanno attratto la maggioranza di quella che è tuttora la capitale finanziaria italiana? La Moratti non è stata neppure competitiva, anche se avrebbe il profilo perfetto, oltre ad essere un ex sindaco.
La Milano del PSI
Milano ha una storia di sinistra socialista: nel mezzo secolo di Prima Repubblica, il Psi ha dominato la scena meneghina, quasi incontrastato. Però erano altri tempi e c’era tutt’altro tessuto sociale, c’erano le fabbriche e un grande elettorato operaio.
Inoltre, ai tempi in cui la sinistra era dominata dal Pci, un voto al Psi era già un atto di pragmatismo e moderazione, perché, almeno dagli anni Sessanta in poi, era la sinistra democratica, possibile, che poteva andare al governo, contrapposta (in certi periodi anche nemica) della sinistra rivoluzionaria. Ma è una Milano che non esiste più da un pezzo, appunto.
Capitale del berlusconismo
Quella che ricordiamo tutti è semmai la città natale e la capitale del berlusconismo. Dunque una città ormai non più operaia, molto più benestante, che ama la crescita economica e non vuole essere rovinata dai lacci e lacciuoli imposti dalla politica e dalla burocrazia di Roma.
Una Milano produttiva che ha scelto un sindaco-imprenditore come Gabriele Albertini (artefice dell’attuale skyline milanese), di Letizia Moratti che porta l’Expo 2015. Ma già l’elezione di Giuliano Pisapia, nel 2011, era un segnale che qualcosa fosse cambiato, non solo nell’elettorato, ma anche nella stessa antropologia di Milano. Pisapia era il candidato di sinistra estrema, malvisto da un Pd che era ancora fermo all’idea di una Milano moderata e produttiva.
Un nuovo elettorato urbano
E allora, appunto, che succede a Milano? Quel che avviene anche in quasi tutte le grandi città occidentali, con pochissime eccezioni. Succede che: la borghesia più istruita, la nuova classe dirigente, l’elettorato più attivo, è uscito da università di sinistra e, lavorando, non ha cambiato idea. Anche nei decenni scorsi, infatti, le università sfornavano laureati comunisti o comunque di sinistra, ma lavorando cambiavano idea.
La grande novità della nuova generazione è che l’utopismo insegnato o inculcato nelle università paga anche sul lavoro. Perché le nuove professioni richiedono sempre più doti relazionali e sempre meno doti pratiche, tecniche.
Nelle relazioni pubbliche vince chi condivide una vision più attraente nei salotti che contano. Per questo avanza una nuova classe padrona, un nuovo elettorato urbano, molto più ideologico che produttivo. Per fortuna (nostra e del Paese) quelle che un tempo erano le campagne non si sono ancora adeguate al nuovo corso.