Politica

Il caso Toti e la riforma Nordio per smantellare una giustizia autoritaria

L’unitarietà delle funzioni dei magistrati era l’unica scelta compatibile con un regime autoritario e per questo fu adottata dal fascismo

Nordio riforma giustizia © Proxima Studio tramite Canva.com

Da genovese sono rimasto particolarmente colpito quando l’8 maggio scorso il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti è stato messo agli arresti domiciliari nella sua Ameglia, accusato di corruzione per l’esercizio della funzione e per atti contrari ai doveri d’ufficio in un’inchiesta in cui sono 25 gli indagati e ben 10 i destinatari di misure cautelari.

Il caso Toti

In modo particolarmente acre si espresse il gip di Genova Paola Faggioni nell’ordinanza, per la quale pur di “ottenere l’elezione o la rielezione” Toti avrebbe “svenduto la propria funzione e la propria attività in cambio di finanziamenti, abdicando in tal modo ai propri importanti doveri istituzionali”. Parole come pietre! Le prove devono essere decisive riflettendo che l’imputato è stato avvisato delle indagini nel dicembre 2023, anche se lo specifico reato contestato al presidente riguarda il voto di quell’anno, visto che dopo non si è più votato per la Regione e, di fatto, l’attività indagatoria relativa a quella fattispecie si ferma per lo più all’autunno 2020, data delle elezioni vinte dal governatore di centrodestra.

Il mio animo liberale provò un sussulto nell’ascoltare le parole di Faggioni che dichiarava che “non si poteva essere certi” che tutti i finanziamenti – registrati a termine di legge – ricevuti da Toti fossero stati utilizzati in modo conforme. Ma quindi, secondo questa affermazione sarebbe sospettabile di corruzione qualunque finanziamento privato. Conseguenza: si dovrebbe abolire la legge che li consente. Ma vabbè.

Altro sussulto al mio animo il rifiuto del gip a revocare i domiciliari, per il pericolo di “reiterazione di reato”. Facendo fatica a comprendere la logica, visto che fino a fine 2025 non sono previste tornate elettorali, la mia sensibilità deve fare un passo indietro all’idea che la magistratura agisca negli interessi della comunità, magari in modo aspro. Le polemiche innescate sulle parentele strette di Faggioni legate all’opposizione politica a Toti e la conseguente reazione stizzita dell’Anm sulla profilazione dei magistrati (nulla di nascosto, ma tutto alla luce del sole digitale di Facebook) non dovrebbero scalfire la convinzione che la magistratura agisca imparzialmente.

Il caso Bozzoli

Ma ecco il rossiniano “colpo di cannon!…”: Giacomo Bozzoli, condannato in due gradi di giudizio all’ergastolo per omicidio di un parente era, ancora prima della sentenza di Cassazione, rimasto in libertà. Questa libertà perdurava da tutti i nove anni di indagini e processi. Non un obbligo di firma, non degli arresti domiciliari, né una custodia cautelare, nonostante la gravità delle accuse con il conseguente pericolo di fuga. Se la costituzione prevede la presunzione di innocenza. D’altronde ha detto un togato, l’imputato in questi anni si era comportato in modo irreprensibile… Ma vogliamo scherzare?

Avrei piacere che qualcuno mi spiegasse perché, a fronte di una Costituzione dichiaratamente pro reo, due magistrati – sicuramente “honorable” (per dirla con Shakespeare) – che dovrebbero rispondere al medesimo ordinamento, hanno comportamenti così dissimili? Da un lato si vuole lasciare libero un pluricondannato per omicidio perché si stava “comportando bene”; dall’altro un presidente di regione resta ai domiciliari, dopo che per 4 anni intercettazioni a suo carico hanno detto poco, perché, “potrebbe reiterare il reato!”. Che abbia ragione quella malalingua di Luigi Bisignani a dire che “i magistrati vogliono comandare anche le Regioni”?

La lezione di Mani Pulite

Ho profonda nostalgia per quella magistratura “antica” così come appare nel film “Un giorno in pretura” sconosciuta ai più che declinava la giustizia in modo umano. Che pericolo la giustizia “in sé”. Come dicevano i latini: summus ius, summa iniuria. Dai tempi di “Mani Pulite” la magistratura – non rinunciando ai suoi privilegi di immunità – ha voluto assurgere ad un prestigio pubblico, “politico”.

La cosa ha la sua logica. Se quello giudiziario è un “potere”, la magistratura è un “ordine”. Ma se la gestione di questo potere è affidato a quell’ordine, ecco che esso diventa “potere” de facto; ed i “poteri”, tutti i “poteri sono tra loro competitivi, cercando di rubare agli altri spazi. Come nei vasi comunicanti, se uno entra in crisi, ecco che un altro ne occupa lo spazio lasciato libero. La lezione di “Mani Pulite” dovrebbe bastare.

Entrati in crisi i poteri politici “di rappresentanza” (diretta o indiretta), ecco che il terzo, quello più nascosto ne ha preso lo spazio e contando sull’immunità alla quale non ha voluto contare ecco, tracimare la propria dimensione. D’altronde lo dicevano anche gli antichi: Senatores boni viri, Senatus atquae mala bestia. Un potere (de facto) che non risponde a nessuno (la costituzione dice che i “giudici sono soggetti soltanto alla legge”, cioè a nessuno), che si autoseleziona, si autogiudica e si autopremia, beh… non è proprio democratico.

Impunità

Gli esempi di questa impunità possono essere numerosi; ci si limiti a due esempi. In una trasmissione televisiva di anni addietro sul caso Tortora alla constatazione che i giudici che condannarono, in primo grado, il conduttore televisivo ebbero uno luminoso futuro professionale, mentre il giudice che lo assolse in appello ebbe una carriera claudicante, Bruno Tinti, già in pensione dalla magistratura e “penna” del Fatto Quotidiano disse che nessuno poteva garantire che ad aver ragione fossero i giudici del processo di primo grado e che quelli di appello e Cassazione avessero sbagliato, perché “la verità processuale, non è una verità storica”. Un ragionamento che si trova all’incrocio tra il “vedo gente e faccio cose!” ed il “Tarapia tapioco”.

Altro esempio: Il sostituto procuratore generale di Milano Cuno Tarfusser, il magistrato che ha chiesto la revisione delle condanne inflitte per la strage di Erba, subì la censura da parte della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, per motivi assolutamente formali. In entrambi i casi è patente che i magistrati in questione sono “rei”, di fronte al sistema, di scalfire l’immagine di una magistratura che non sbaglia mai.

La riforma Nordio

È ovvio che la riforma della giustizia proposta dal ministro Carlo Nordio, ad iniziare dal dettaglio delle separazione delle carriere, venga vista come un pericolo. In via ufficiale, l’Anm, (l’associazione di categoria dei magistrati), in una nota ufficiale ha dichiarato:

La logica di fondo del disegno di legge sulla separazione delle carriere e l’istituzione dell’Alta corte si rintraccia in una volontà punitiva nei confronti della magistratura ordinaria, responsabile per l’esercizio indipendente delle sue funzioni di controllo di legalità […] È una riforma […] che esprime la chiara intenzione di attuare un controllo sulla magistratura da parte della politica, che si realizza essenzialmente con lo svilimento del ruolo e della funzione di rappresentanza elettiva dei togati del Csm […] Quella di oggi è una sconfitta per la giustizia.

È certo che la separazione delle carriere intende smantellare alcune logiche di “potere”. Preso atto che la magistratura inquirente è in numero superiore di quella giudicante, è quanto meno sospetto che vi sia un corpo elettorale attivo e passivo che si riconosca nella totalità dei magistrati. Il mondo non è fatto di santi, ma di persone con i loro difetti ed i loro interessi soggettivi. L’elettorato passivo offrirà i propri favori all’elettorato attivo: è sempre stato e sempre sarà! Cosa renderebbe i magistrati un insieme di persone, non collegati da interessi corporativi, ma effusi da una laico Spirito Santo? Che il superamento di un concorso rappresenti una raggiunta altezza morale? I pochi mesi di intercettazione a danno del giudice Palamara ha dimostrato proprio il contrario.

Giustizia da regime autoritario

Poi è proprio vero che l’unicità dell’azione penale rappresenta la quintessenza della democrazia, offesa e minacciata dal ministro Nordio. Insomma! Forse sarebbe necessario ripercorrere la storia patria, anche nelle sue pagine meno edificanti. È noto che dopo l’approvazione del codice di procedura Rocco, il ministro di grazia e giustizia, Dino Grandi sostenne testualmente che le ragioni della scelta in favore della unitarietà della organizzazione tra giudici e pm erano “essenzialmente d’ordine politico, in quanto, superata la distinzione, fondamentalmente erronea, tra i poteri dello Stato e subentrata la concezione di una differenziazione di funzioni, non sarebbe più concepibile in uno Stato moderno una netta separazione tra magistratura requirente, partecipe della funzione esecutiva, e magistratura giudicante”.

Quando Grandi faceva riferimento allo “Stato moderno” aveva in mente l’ordinamento fascista, non a caso contrapposto a quello liberale, che nel 1865 aveva adottato una soluzione diversa. In sostanza, nel sostenere che l’unitarietà delle funzioni era l’unica scelta compatibile con il regime autoritario, Grandi rivendicava una coerenza di sistema, fondato sulla identificazione all’interno della unica funzione giudiziaria di due sotto-distinzioni, accusa e giudizio, che rifletteva in campo giudiziario lo stesso schema che aveva portato, sul piano costituzionale, al superamento della divisione dei poteri.

Quindi: quale offesa alla democrazia? Semmai il tentativo, magari parziale, di superare l’idea stessa dello Stato etico – per molti versi il fil rouge che unisce il passato fascista alla nostra Costituzione. In fondo, anche alla lettura di una persona senza specifica preparazione in campo giuridico, già l’inserimento del giusto processo in Costituzione – con la modifica dell’art. 111, come adeguamento all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo – che postula la terzietà del giudice tra pm e difesa, l’unitarietà delle carriere pare solo una lotta corporativa, legittima, ma di retroguardia.

Alla fine… si torna all’inizio. Fino a che nessuno stigmatizza le boriose parole di Giancarlo De Cataldo che, in una intervista rilasciata alla fine 2010 disse che, come giudice, non era imparziale, “perché… la Costituzione non è imparziale” e che l’imparzialità della magistratura era uno degli obiettivi della P2; fino a che vi sono casi Toti e casi Bozzoli tutto appare come “chiacchiere e distintivo”!