È ricorrente il grido di dolore che si leva ad ogni elezione a fronte dell’astensionismo, che tende a consolidarsi intorno al 50 per cento, un elettore su due, quando va bene. Se ne deduce una crisi della “democrazia occidentale” perché questa percentuale non è certo propria della sola Italia, condivisa com’è al di qua e al di là dell’Atlantico; crisi che ne farebbe una “democrazia minoritaria”, carente di legittimazione popolare, tanto che un’eventuale maggioranza potrebbe contare anche solo su un quarto del corpo elettorale.
La democrazia “minoritaria”
Causa principale ne sarebbe la scarsa credibilità dell’offerta politica dei partiti, ridotti a meri simboli personalizzati, privi di classi dirigenti all’altezza, attardati in contrasti ideologici; tale da non riuscire a motivare la metà degli elettori a trovare il tempo e il modo per andare a votare. Ne rappresenterebbe una conferma il fatto che la percentuale resta più o meno uguale, se pur non decresce, siano le urne aperte per la sola domenica o anche per il lunedì, fino al primo pomeriggio, sì da far supporre che non cambierebbe di molto se venisse concesso un giorno in più.
Naturalmente è quella uscita dalle elezioni come minoranza a far valere la carenza di legittimazione della maggioranza, con in più la ribadita convinzione che con una percentuale più elevata sarebbe stata proprio lei a governare. Secondo una lettura largamente condivisa, il dato della percentuale di partecipazione conosciuto a chiusura dei seggi sarebbe già di per sé anticipatorio del risultato, ritenendosi a favore della destra se basso, della sinistra, se alto.
Da qui la convinzione della stessa sinistra che l’astensionismo la punisse assai più della destra, dando per scontato che a disertare le urne siano prevalentemente i suoi potenziali elettori. Se fosse così la democrazia minoritaria realizzata dalla destra avrebbe bensì una giustificazione formale, essendo fondata sulla libertà di voto – senza, peraltro, trasformarlo da dovere civico a obbligo sanzionato – ma non ne avrebbe una sostanziale, falsando il risultato elettorale.
Crisi o stabilità?
Ora che di per sé l’astensionismo sia il sintomo della crisi della democrazia occidentale in quanto motivato dalla convinzione che il gioco non valga la partita, mi pare un giudizio per lo meno eccessivo, tant’è che le democrazie “progressiste” di ieri e le democrature di oggi vantano una forte percentuale di partecipanti al voto, un tempo si parlava di “maggioranze bulgare”.
Non potrebbe essere che una percentuale al 50 per cento sia da considerarsi fisiologica, per testimoniare non una crisi ma una acquisita stabilità della democrazia? Ad una larga fetta di cittadini la possibilità di votare basta e avanza, a prescindere dall’esercitarla. La partecipazione può essere disincentivata dalla convinzione che il risultato sia scontato o tale da non incidere sul tessuto quotidiano. Comunque ci sarà chi si recherà come sempre al seggio elettorale.
Tanto più se, come per l’Italia, è una democrazia riconquistata dopo la dittatura fascista, sperimentata e collaudata da settant’anni, con una stabilità formale e sostanziale mai venuta meno, se non nella fantasia malata ereditata dal PCI, confermata dall’attuale maggioranza di centrodestra, uscita da una regolare consultazione elettorale, confortata da un sondaggio all’altro, percepita dall’opinione pubblica come destinata a durare per l’intera legislatura.
Dopo il marasma dei governi tecnici e dei governi di separati in casa, dovuti alla parzialità di un presidente della Repubblica, auto-assicuratosi una permanenza in carica per quattordici anni, il sistema torna a funzionare regolarmente.
Allarme permanente
Non basta inventare e propagandare fino all’ossessione una emergenza in corso, di un fascismo di ritorno o un regime fascistoide in atto per motivare una potenziale opposizione, perché non ve n’è alcun sintomo percepibile dal comune cittadino, tanto che finisce per rivelarsi controproducente, vorrebbe tenere la gente in uno stato di allarme continuo, una sorta di “al lupo, al lupo”, scandito dal passaggio da uno ad un altro scandalo, del tutto artificioso, da Scurati a Vannacci: beatificato, il primo, come autore di monologo resistenziale, ma poi smentito una volta viste le carte, come riconosciuto lealmente dallo stesso Travaglio; demonizzato, il secondo, come sostenitore di un sistema educativo per i disabili non inclusivo, ma poi riscattato da un confronto comparativo relativo all’Europa che non vede tale sistema come unico.
Le riforme
Solo che il vero vulnus alla democrazia, come delineata nella nostra Carta costituzionale, sarebbe costituito, a sentire l’opposizione, da uno stravolgimento istituzionale, rappresentato, dal premierato, dall’autonomia differenziata, dalla separazione delle carriere dei magistrati. Ma non sembra che siano in grado di coinvolgere più di tanto, a parte l’autonomia differenziata, destinata a passare con legge ordinaria, ma qui il fatto è che è prevista dalla stessa Costituzione a seguito della riforma del Titolo III con la riforma del 2001, dal primo governo dell’Ulivo: la si può attuare in un modo o in un altro, ma non la si può bloccare.
Le altre due, premierato e separazione delle carriere, dovranno scontare la lunga procedura richiesta per le modifiche costituzionali, comunque saranno soggette a referendum, che, a stare al passato, è un passaggio del tutto imprevedibile, come si deduce dal fallimento dei due tentativi precedenti, Berlusconi e Renzi.
Le preoccupazioni dei cittadini
C’è ben dell’altro che tiene desta la gente, la situazione economica e la ricaduta delle due guerre in corso: la situazione economica non appare così grave come l’opposizione la dipinge, ma, divisa com’è, non riesce a convincere che una volta al governo la migliorerebbe sensibilmente, tenuto conto del nuovo Patto di stabilità, rifiutato dai 5 Stelle ma accettato “con beneficio d’inventario” da un Pd europeista convinto; a sua volta la ricaduta delle due guerre, divide i 5 Stelle da un Pd, atlantista convinto.