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Il giallo dell’estate: “Chi ha ucciso Mister Draghi?”

Il Colle voleva un omicidio politico in diretta, ha ottenuto al più una istigazione o aiuto al suicidio (da parte di 5 Stelle, FI e Lega). Ma in realtà fu vero suicidio

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Non v’è dubbio che il libro preferito da leggere in agosto, abbandonati su uno sdraio al riparo dell’ombrellone o allungati sul sedile in legno di un rifugio montano, è un giallo, con il lettore, pagina dietro pagina, all’inseguimento dell’assassino, che gli viene adombrato fin dall’inizio, per poi rivelarsi non vero. Ce n’è un altro sapientemente occultato sì da risultare del tutto insospettabile fino alle ultime righe.

Per questo agosto, che si preannuncia ribollente, ce n’è più d’uno in circolazione, accatastato in una pila senza fondo proprio in fronte all’entrata delle librerie, in competizione per il successo nelle vendite, secondo graduatorie fatte circolare settimanalmente; ma per quanto appetibile non è certo in grado di competere con qualche giallo reale.

Va bene se è un caso vecchio, anche di qualche decennio, così da essere ormai circondato da un mistero impenetrabile; ma riesce meglio uno attuale, squadernato sui mass media, fresco fresco, motivo di un intenso dibattito fra innocentisti e colpevolisti, con le loro diverse ricostruzioni, tutte accompagnate da documentazioni e testimonianze, ovviamente considerate tutt’altro che decisive dalle parti in contrasto.

Un omicidio politico

Che dire, dunque, del tormentone su “Chi ha ucciso Mister Draghi”, personaggio di assoluto rilievo nazionale e internazionale, che fino all’altro ieri veniva considerato in buona se non ottima salute. Certo non pare esserci dietro alcun scenario erotico-sentimentale, che in un giallo non guasta mai, specie dove l’uomo era noto per il suo stile di vita tutto casa e lavoro, che bello scandalo all’inglese sarebbe stato altrimenti.

No, qui si tratterebbe di un omicidio squisitamente politico attuato per favorire una consultazione elettorale propedeutica ad un cambio di regime in senso antidemocratico, a costo di interrompere un cammino virtuoso di risanamento socioeconomico e di recupero di reddito internazionale.

Il teatro dell’omicidio è l’aula del Senato del 20 luglio, dove il presidente del Consiglio, rinviato alle Camere da Mattarella dopo le prime dimissioni seguite all’esito della seduta del Senato del 14 luglio, chiede la fiducia su una risoluzione di Pierferdinando Casini, “Il Senato, udite le comunicazioni del presidente del Consiglio, le approva”.

La risoluzione passa, ma con la striminzita maggioranza di 95 voti, guidata dal Pd; risultato derivante dalla chiamata fuori dalla votazione, sia di Forza Italia e Lega, sia dei 5 Stelle, la cui unica preoccupazione è stata quella di non far mancare comunque il numero legale, proprio per non vanificare una risoluzione come quella Casini che formalmente concedeva la fiducia, ma politicamente la negava, rendendo le seconde dimissioni del presidente del Consiglio inevitabili.

Da qui l’accusa, non priva di una sua fondatezza, rivolta dal Pd ai 5 Stelle e a FI e Lega di avere colpito nascondendo la mano, compresi del contraccolpo negativo del loro voto contrario su una opinione pubblica confortata dalla presenza del super Mario.

Un omicidio in diretta

C’è ben più che il sospetto che il regista assiso al Quirinale volesse proprio un omicidio in diretta. Il film della legislatura, per quanto rappezzato cammin facendo, non sarebbe riuscito a durare i cinque anni previsti, per essersi bruciato l’ultimo protagonista reclutato alla bisogna, fatto, questo, del tutto evidente già alla presentazione delle prime dimissioni da parte del presidente del Consiglio.

Draghi avrebbe ben volentieri fatto a meno del rinvio al Parlamento, ma Mattarella no, voleva l’assassinio visibile in tempo reale, del tutto noncurante del residuo calvario che imponeva all’ex presidente della Bce, lui se ne lavava le mani nel mentre lo consegnava alla rabbia sovranista e populista, costringendolo a porre la fiducia su una risoluzione Casini scritta per stanare apertamente i reprobi, perciò qualificabili come sovranisti e populisti.

Un finale farsesco

Solo che niente è andato come programmato dall’inquilino del Colle. Draghi, già nella comunicazione ma ancor più nella replica, si è comportato con consapevole fierezza, senza concedere nulla né ai 5 Stelle né alla Lega, sì da far sembrare la proposta Casini per quello che era, una dichiarazione di morte già bella predisposta. Non lascia spiragli per una trattativa, non dice nulla che i protestatari vorrebbero sentire, butta in faccia al Senato la sua agenda, un prendere e lasciare irricevibile da 5 Stelle e Lega, a costo di perdere completamente la faccia.

Solo che questi partiti, che avrebbero dovuto apparire in diretta come gli autentici omicidi, si erano già preparati un alibi, non votando contro la fiducia, ma chiamandosi fuori dalla conta in vario modo, con l’unica preoccupazione di non far mancare il numero legale, sì che alla fine quella fiducia Draghi l’avesse.

Un finale farsesco, con meno di un terzo dei senatori favorevoli, il predestinato al patibolo che non fa niente per essere votato, anzi tutto il contrario, peraltro lasciato formalmente in vita, pur essendo politicamente defunto. Di fronte alle seconde definitive dimissioni da parte di Draghi, il Quirinale, avendo esaurito ogni possibile tentativo rianimatorio di un Parlamento agonizzante, si arrende, accetta quelle dimissioni e firma lo scioglimento delle Camere.

Istigazione o aiuto al suicidio

Il che ha cambiato lo scenario, visto che è stato lo stesso Draghi a chiamarsi fuori già dalle prime dimissioni, ben consapevole che il clima ormai pesantemente preelettorale lo avrebbe condannato ad un penoso galleggiamento, non si può parlare proprio di omicidio, in diretta o meno, ma tutt’al più di istigazione o aiuto al suicidio.

Vien naturale richiamare l’art. 580 c.p. che, secondo l’interpretazione giurisprudenziale consolidata, qui non toccata dalla lettura offertane dalla Corte costituzionale, prevede il reato di determinare altri al suicidio facendovi sorgere un proposito prima inesistente o rafforzandone un intento già presente; oppure, di partecipare materialmente con qualsiasi modalità all’esecuzione.

Il che richiederebbe di escludere che Mister Draghi coltivasse già il desiderio di farla finita, prodotto o rafforzato dal quotidiano logorio di tenere insieme una maggioranza imposta ma tutt’altro che condivisa, specie nella turbolenza preelettorale. Lo ha affermato Berlusconi, subito accusato di voler evitare di apparire colpevole, ma, a dire il vero, niente sappiamo dello stato d’animo di Mister Draghi, al momento in cui prende atto della votazione avvenuta nella seduta del Senato del 14 luglio, con quella mancata concessione della fiducia da parte dei 5 Stelle che lo induce per la prima volta a salire le scale del Quirinale.

Attenuanti dei 5 Stelle

Insomma, ci sono sempre i 5 Stelle a “costringere” Draghi a farla finita, con la loro non partecipazione alla fiducia scelta e già attuata in solitaria nella seduta del Senato del 14 luglio e realizzata in sintonia con FI e Lega in quella del 20 luglio. Dunque, colpevoli senza neppure una attenuante?

Ma per valutarne il loro comportamento bisogna tenere conto del precipitare della situazione interna in ragione della continua evaporazione dell’elettorato, riflessa nella crescente irrilevanza nel governo. Da qui la difficoltà per Conte, legittimo gestore della sigla, per la spaccatura via via più approfondita all’interno dei suoi gruppi parlamentari, tra favorevoli e contrari alla permanenza al governo.

Fino al fatto del tutto determinante sull’ulteriore corso degli eventi, dell’uscita dai 5 Stelle attuata il 21 giugno dai “governisti” guidati da un Luigi Di Maio sempre più sdraiato su Draghi, nel cui nome presentarsi addirittura alle elezioni dopo la scadenza della legislatura.

Un evento se non concordato, certo non male accetto da parte di un Pd sempre meno convinto di un “campo largo” comprensivo dei 5 Stelle; ma di per sé tale da creare come contraccolpo un irrigidimento di Conte nei confronti di Draghi, con la presentazione il 6 luglio dei famosi “9 punti” identitari, destinati ad assumere il ruolo di una linea del Piave.

Nessuna interlocuzione da parte di Draghi, anzi una sorta di provocazione nel forzare l’approvazione del “decreto aiuti”, accompagnandolo con la questione di fiducia: in testa al decreto, indigesto per i 5 Stelle, niente meno comprensivo di un intervento visto e vissuto come provocatorio, cioè il semaforo verde al termovalorizzatore di Roma.

Non si può dire che Conte non abbia cercato di sminare il campo, distinguendo questione di fiducia e approvazione del decreto “aiuti”, ma scontrandosi con il diverso tenore del regolamento della Camera rispetto a quello del Senato: alla Camera era possibile il distinguo, come venne fatto dai 5 Stelle nella seduta dell’11 luglio, votando la fiducia ma non il decreto “aiuti”; al Senato non lo era, sì che nella seduta del 14 luglio i 5 Stelle non votano la fiducia posta sul decreto “aiuti”, come avevano preannunciato.

Il rinvio alle Camere

A questo punto Draghi sale per la prima volta al Colle, con le dimissioni in mano, avendo perfettamente compreso che il governo di c.d. unità nazionale non era in grado di sopravvivere alla competizione elettorale già in corso, dato che non si poteva pretendere che i partiti l’affrontassero senza enfatizzare le rispettive identità: se c’era una colpa era quella insita nella stessa natura della democrazia, fatta dalla differenza fino alla contrapposizione delle proposte.

Andare avanti avrebbe richiesto farsi lui stesso il regista della fine di quella unità, scegliendo fra le due alternative che avevano preso piena forma. Non era nel suo stile, non lo fece, come d’altronde si era già impegnato.

Ma intendo dovette far buon viso ad un Mattarella furioso di esser costretto a quello scioglimento delle Camere che aveva ossessivamente cercato di evitare per non dare spazio ad un centrodestra considerato ontologicamente antidemocratico. Dimissioni respinte, rinvio alla Camere con una esplicita richiesta di fiducia, certo condannata al rigetto, ma tale da mostrare in diretta chi intendeva far fuori Draghi, sì da meritare l’infamia dell’intera nazione.

Draghi fedele alla parola

Draghi avrebbe avuto in astratto due alternative, discutere i “9 punti”, come da richiesta dei 5 Stelle, ribadita in Senato, con una maggioranza che probabilmente avrebbe escluso FI e Lega; o far propria l’idea di una maggioranza che escludeva esplicitamente i 5 Stelle, come dalla risoluzione proposta da FI e Lega in Senato il 20 luglio.

Ha scelto non solo per esaurimento, non tanto personale quanto dello stesso esperimento, ma fedele alla parola si è chiamato fuori, uomo di una ed una sola maggioranza, ha pronunciato con fierezza una comunicazione ed una replica, non priva di una sferzante ironia nei confronti di Lega e 5 Stelle, con una agenda proposta come sua; per poi porre la fiducia sulla mozione Casini, questa sì suicida, nella sua portata solo apparentemente neutra di tutti avanti come se non fosse successo niente.

Attenuanti di Lega e Forza Italia

Che dire però, dell’altra parte in commedia, cioè di Forza Italia e della Lega? È più che probabile che non si fidassero più di Mattarella, un giocoliere cui alla fine le palle lanciate in aria erano finite per terra. Dopo aver tanto richiesto il “tutti a casa” per un Parlamento tenuto in vita col massaggio cardiaco solo per evitare che vincessero le elezioni, ecco presentarsi una occasione certo non provocata da loro.

Perché non sfruttarla, dato il vento in poppa confermato da un sondaggio dietro l’altro, tanto più che questo avrebbe probabilmente rallentato o addirittura invertito il traumatico travaso di voti dalla Lega su Fratelli d’Italia? D’altronde non erano certo portati a mitizzare Draghi, fino al punto di considerarlo essenziale per l’equilibrio non solo socioeconomico, ma anche democratico del Paese, tanto da credere e far credere che avrebbe dovuto continuare a fare il presidente del Consiglio anche nella prossima legislatura.

Il trucco di autoperpetuarsi è riuscito a Mattarella, cioè di far immaginare che senza ci sarebbe stato il diluvio, ma non è che lo stesso sarebbe stato possibile per Draghi, sempre che lui ne fosse interessato; quindi, Draghi sarebbe comunque uscito di scena, solo con qualche mese in più, senza aver affatto risolto la crisi sanitaria ed energetica, né esaurito il percorso del Pnrr, destinato a svolgersi per l’intero triennio 2023-2026. Certo c’è in gioco la finanziaria, ma non è detto che non sia meglio farla fare a chi sarà tenuto a metterla in pratica, confortato finalmente da un esplicito consenso elettorale.

D’altronde che cosa avrebbero dovuto fare FI e Lega, una volta disattesa la loro proposta di una maggioranza senza 5 Stelle? Votare la mozione Casini, senza sapere che cosa avrebbero fatto esattamente i 5 Stelle, soggetti ad una pressione incredibile da parte del Pd, in nome di un interesse generale come spesso del tutto coincidente col proprio? Il solo rischio di ritrovarsi ancora una volta in compagnia dei 5 Stelle ha fatto saltare sulla poltrona i leader di FI e Lega, che strano non solo Salvini ma anche Berlusconi, di cui non si vuole comprendere il ruolo di federatore, che gli impone di assicurare la tenuta del centrodestra, coordinandolo senza forzarlo.

Alla fine, un suicidio

Il fatto è che comunque i 5 Stelle non avrebbero votato la fiducia, così dando piena ragione agli scissionisti alla Di Maio; e, alla fine, Draghi non era disposto ad accettare una maggioranza senza i 5 Stelle. Se così è non si potrebbe parlare dell’omicidio di Mister Draghi, al più di una istigazione o aiuto al suicidio da parte dei 5 Stelle e/o di FI e Lega.

Ma a quanto pare neppure di questa, perché era stato chiesto al presidente del Consiglio di aggiornare la rotta, con un probabile cambio di maggioranza. Lui non ha voluto, un cambio gli appariva più che un rimedio, un finale poco utile per continuare, per di più contrario all’alto senso del suo ruolo.