È definitivo! L’Italia è un Paese provinciale. Posto ai margini della storia e – spesso – tenuto in uggia dagli altri Paesi europei, non poche volte si balocca di polemiche tese a dimostrare che il Bel Paese è stata la fucina di tutto quanto vi è di buono al mondo. Roberto Benigni, di questo rito, divenuto onanistico divertissement, ne ha fatto una ben remunerativa professione. Ecco che tramite le sue parole il Risorgimento italiano diviene un modello eponimo della liberazione dei popoli, così come la Costituzione italiana diviene un faro per ogni coscienza civile ed esempio in tutto l’orbe terraqueo.
A questo florilegio non poteva mancare la recente esaltazione del citatissimo (soprattutto negli ultimi giorni) Manifesto di Ventotene, testo di “giustizia sociale che non lascia indietro nessuno” che ha innervato l’Unione europea, la “più grande istituzione degli ultimi 5000 anni realizzata sul pianeta terra dall’essere umano, un progetto, un ideale, una speranza, una sfida, un sogno, e soprattutto è un caso unico nella storia dell’umanità”.
Al di là del parossismo semantico che trasuda razzismo, verso tutto ciò che è esterno alla parte occidentale del Vecchio Continente e che gioca con la storia come una irritante superficialità, è evidente che siamo di fronte alla retorica dell’Italietta – tradita dai suoi ceti dirigenti – matrice di ogni proposta sociale e politica positiva.
Le parole di Meloni
Questo “Manifesto di Ventotene” è stato sventolato come un antico “libretto rosso” maoista alla manifestazione pro-Europa del 15 marzo al grido di garibaldina memoria: “qui si fa l’Europa o si muore”. Il 19 marzo il presidente Giorgia Meloni, a commento della manifestazione del centrosinistra, ha affermato:
Non mi è chiarissima la vostra idea di Europa, perché nella manifestazione di sabato a piazza del Popolo e anche in quest’aula è stato richiamato da moltissimi partecipanti il Manifesto di Ventotene: spero non l’abbiano mai letto, perché l’alternativa sarebbe francamente spaventosa.
Ha affermato prima di citare alcuni passi del testo: “La rivoluzione europea dovrà essere socialista”. “La proprietà privata dovrà essere abolita”. “La metodologia democratica sarà un peso morto”, e concludendo: “ecco, non so se questa è la vostra Europa ma certamente non è la mia”.
Apriti cielo! Dai banchi dell’opposizione nelle Camere si sono alzati alti lai contro la studiata “uscita” della Meloni, accusata di non contestualizzare il testo e di ricorrere alla tecnica del cherry picking cioè ad una fallacia logica (o fallacia dell’evidenza incompleta) caratterizzata dall’attitudine da parte di un individuo volta a ignorare tutte le prove che potrebbero confutare una propria tesi ed evidenziando solo quelle a suo favore.
Se il mondo intellettuale e dell’informazione più prossimo al centrodestra fa quadrato intorno a Meloni, a dimostrazione che gli sgangherati eccessi dell’opposizione sono stati un parziale auto-goal, a sinistra qualcosa si spacca: se Saviano (uno per tanti) accusa Meloni di ignoranza, ecco che Cacciari fa un passo a lato nei confronti della sinistra e pare invitare ad archiviare il Manifesto come un documento storico, quale è.
Gli autori del “Manifesto”
Ma quanto hanno di vero le critiche e le esaltazioni di questo testo? Scritto nel 1941, il “Manifesto” è – più di altri “testi sacri” – figlio dell’esperienza e delle contraddizioni dei suoi estensori: Altiero Spinelli, ex militante del PCd’I – “diventato comunista come si diventa prete”, poi espulso dal partito ed acquisito alla causa del federalismo europeo, confluendo, sempre come un “prete” all’azionismo (“peggio dei comunisti ci sono solo i filocomunisti” diceva Cossiga).
Ernesto Rossi – il liberale allievo di Luigi Einaudi e Gaetano Salvemini – successivamente entrato nelle file di “Giustizia e Libertà” e approdato, in carcere, al socialismo anglosassone. E infine – accanto a loro, sia pure un poco discosto – Eugenio Colorni, dirigente socialista.
Ecco il contesto
Anche riconoscendo l’onestà intellettuale degli autori, viene difficile pensare che alcune affermazioni ed una impostazione generale del testo possano, facilmente, essere contestualizzate nell’atmosfera del tempo nel quale fu scritto, senza svuotarlo di ogni significato, senza – sostanzialmente – distruggerlo.
Il richiamo incessante ad un “socialismo liberale” è – quanto meno – nella prassi proposta estremamente fragile. Ricordando come il legame tra democrazia e liberalismo – considerato ormai indissolubile – è nell’Europa continentale una consapevolezza molto recente e di ispirazione anglosassone il “Manifesto”, per giungere a questa strana forma di socialismo, confida in un “volontarismo”, da parte degli attori, distante dalla realtà.
Quali sono gli assunti chiave: 1) che la “classe lavoratrice” abbia un innato spirito sovranazionale; 2) che in un processo elettorale il popolo possa manifestarsi come “immaturo” e che, quindi, debba essere corretto con “una costante opera di convinzione”; 3) che “nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente”; 4) che “Il partito rivoluzionario non può essere dilettantescamente improvvisato nel momento decisivo, ma deve sin da ora cominciare a formarsi almeno nel suo atteggiamento politico centrale, nei suoi quadri generali e nelle prime direttive d’azione”; 5) che “la proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio”.
Paradigmi già vecchi nel 1941
Questi paradigmi erano, già nel 1941 vecchi e superati. La storia del Risorgimento insegna quanto il popolo “basso”, sia portatore di valori “tradizionali”, quando non “tradizionalisti”, se non altro perché non conoscevano neppure la lingua nazionale (chi non ricorda la tragica fine di Pisacane?).
Quale spazio di libertà lascia l’oligarchia rivoluzionaria il cui compito è quella di educare il popolo? È il vecchio mito di Platone, del re filosofo, il più illiberale che esista. Quale speranza nel futuro lascia l’idea che esista una categoria di ottimati, di filosofi, che sanno qual è il bene del mondo e lo impongono?
Nel 1941 già si sapeva come rivoluzioni “liberali” e borghesi, ma guidate da rivoluzionari “virtuosi”, si fossero trasformate in sanguinari regimi. Infine il “Manifesto” dice: no alla statalizzazione comunista. Però dovranno essere questi ottimati a dire dove deve stare e come debba funzionare la proprietà privata.
Eppure, già un secolo prima della stesura del “Manifesto” era stato determinato da John Stuart Mill che la “proprietà” era propedeutica al concetto stesso di libertà e proprio nella difesa di quest’ultima aveva la sua principale legittimità. È proprio dal conflitto di opinioni e di interessi (ecco l’importanza della “proprietà privata”) che si forma il pluralismo, quel liberalismo democratico che non trova diritto di cittadinanza nel “Manifesto”.
Questi i limiti del “Manifesto”: bello, ma irrealizzabile, come un testo sacro. E come testo sacro difeso da chiunque ne rilevi i limiti. In una Italia, dove persino un cardinale può dire che il Vangelo “non è un distillato di verità”, abbiamo novelle Vestali, in Parlamento e fuori, pronte a difendere, pur senza conoscerlo, questo testo che ha avuto solo una minima influenza (per non dire nulla) nella nascita dell’Unione europea.
Il testo di De Gasperi
Tutti pronti ad essere esegeti di questo “Manifesto”, ma nessuno che ricordi il testo, scritto nel 1942 da Alcide De Gasperi, e diffuso clandestinamente a firma di Demofilo il 26 luglio 1943, dal titolo “Le idee ricostruttive della Democrazia Cristiana”.
In questo testo “il più grande presidente del Consiglio che abbiamo avuto”, per utilizzare le parole di Benigni, sempre sobrio, senza prevedere una repentina palingenesi della storia, lancia segnali verso la convivenza tra i popoli. La sua esperienza di cittadino italiano e di suddito dell’imperial regia Maestà, nonché di parlamentare sia a Roma, sia a Vienna, lo portava distante dai massimalismi presenti nel “Manifesto” per farsi promotore di integrazioni sempre più sostanziali tra i vari stati europei.
L’esperienza austriaca
Fondamentale è la sua esperienza “austriaca”. In momenti di nazionalismi ed irredentismi accesi, nel 1906, egli si pronunciò a favore della “difesa delle nazionalità all’interno dell’Impero”. Per coscienza nazionale positiva egli intende, due anni dopo, “sviluppare nel popolo un sentimento di attaccamento alla propria nazionalità, che non produca scatti di ribellione”; la nazionalità va dunque intesa “nel senso più ampio e vero, bandito il concetto piccino che si limita alle lotte linguistiche”.
De Gasperi vedeva l’Austria come una “miriade di patrie”. Proprio da questo punto parte il suo sostegno all’idea degli Stati Uniti della Grande Austria; un progetto che è stato di ispirazione per la nascita dell’Europa.
La sintesi laica dei valori “cristiani” che accumunava Schumann, Adenauer e De Gasperi, rappresenta lo zoccolo valoriale su cui si sono basate e si basano le istituzioni europee. Il Manifesto di Ventotene è rimasto un “interessante” testo di letteratura politica.