Parliamo qui dell’ordinanza, con la quale un collegio del Tribunale Civile di Bologna ha sospeso il rigetto della domanda di protezione internazionale presentata da un bangladino, apparentemente trattenuto in Emilia-Romagna; rinviando la propria decisione a dopo un chiarimento pregiudiziale, da parte della CGUE (Corte di Giustizia dell’Unione europea) … il cd rinvio pregiudiziale. L’oggetto del contendere è sempre la definizione di paese sicuro, ove il richiedente asilo possa liberamente trasferirsi o essere trasferito.
Riassunto della puntata precedente
Già abbiamo spiegato i passi precedenti, riassumibili come segue. Il diritto unionale (aka leuropeo) ha sempre previsto: tanto una eccezione geografica (un Paese può essere sicuro solo su una parte del proprio territorio), quanto una eccezione di categoria personale (un Paese può essere sicuro solo per la grande maggioranza della propria popolazione).
Il 4 ottobre 2024, CGUE si è pronunciata contro l’esistenza di una eccezione geografica. Con una sentenza che abbiamo descritto come un pastrocchio.
Il 18 ottobre 2024, di cotanta porcheria di sentenza si sono impossessati alcuni giudici del Tribunale di Roma. I quali hanno asserito che CGUE si fosse pronunciata, non solo contro l’esistenza di una eccezione geografica, ma pure contro l’esistenza di una eccezione di categoria personale. Con un decreto che già abbiamo descritto come un pastrocchio peggiore di quello combinato da CGUE.
Tale decreto è – con ogni probabilità – destinato a cadere con prossima pronuncia di Cassazione: in quanto basato su una lettura immaginifica della sentenza CGUE e in quanto totalmente carente di motivazione completa, esaustiva e relativa al caso concreto.
Il 23 ottobre 2024, un decreto-legge ha messo un adeguato tappo all’improvvisamente insorto buco legislativo. Con, in più, la fine del regno della disapplicazione e del rigetto in balìa di giudici monocratici e inappellabili, troppo spesso comunisti.
In ogni caso, l’intera discussione sarà assai presto superata dall’entrata in applicazione del blocco legislativo costituito dal regolamento 2024/1347 e dal regolamento 2024/1348 – III qualifiche e III procedura – i quali, dal giugno-luglio 2026, toglieranno qualsivoglia appiglio a chi si ostina a dubitare dell’esistenza di una o entrambe le eccezioni (geografica e di categoria personale).
L’ordinanza bolognese
La novità è che, su tutto questo, è intervenuta l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, del Tribunale di Bologna. Che andiamo a commentare. Anzitutto, notando come il giudice sia ben attento a spazzare qualsivoglia considerazione di merito: “la procedura accelerata è stata eseguita correttamente nelle sue varie articolazioni procedurali” e “la provenienza del ricorrente dal Bangladesh è assolutamente pacifica”. Ad interessarlo è il diritto – come a lui piace immaginarselo -, esclusivamente.
In secondo luogo, notando come il giudice sia perfettamente conscio come l’intera discussione sia destinata ad essere superata dall’entrata in applicazione della III qualifiche e III procedura, nel giugno-luglio 2026. La quale darà totale e definitiva ragione al governo italiano.
Bologna confuta Roma
In terzo luogo, notando – con grande piacere – come il giudice sappia che CGUE si è pronunciata esclusivamente contro l’esistenza di una eccezione geografica … e non pure contro l’esistenza di una eccezione di categoria personale. Infatti, l’opinione del Tribunale di Roma che la sentenza CGUE si sia riferita ad entrambe le eccezioni, viene – dall’ordinanza bolognese – derubricata ad opinione di “diverse corti di merito”.
D’altronde, in un articolo del 22 settembre 2024, il presidente del collegio bolognese Marco Gattuso lo aveva scolpito: il ricorso discusso da CGUE aveva “ad oggetto soltanto l’ipotesi della clausola di esclusione territoriale, ma non la questione della legittimità di clausole di esclusione per appartenenza a gruppi sociali o per profili”.
Perciò, mentre il Tribunale di Roma aveva dichiarato essere il Bangladesh (oltre all’Egitto) paese non sicuro, al contrario il Tribunale di Bologna non lo dichiara affatto ma, invece, si chiede se il Bangladesh lo sia o non lo sia. Dopodiché, per darsi una risposta vuole prima sapere da CGUE se veramente i regolamenti unionali non contengano una eccezione di categoria personale. Atteso che certamente la sentenza CGUE a tale eccezione non faceva alcun riferimento. Fin qui tutto bene.
Bologna vuol fare meglio di Roma
Al contrario – e qui comincia la parte dell’ordinanza da censurare -, l’opinione del Tribunale di Roma, che il diritto unionale si riferisca ad entrambe le eccezioni, viene condivisa. Viene condivisa, in particolare, con riferimento a Paesi nei quali fossimo in presenza “di persecuzioni e di pericoli di danno grave diretti in modo sistematico e generalizzato nei confronti degli appartenenti a specifici gruppi sociali”. Pure si tratti di “un solo gruppo sociale” e fa l’esempio di “persone lgbtiqa+”, “appartenenti a minoranze sociali, etniche o religiose”, “donne esposte a violenza di genere o rischio di tratta”.
Tradotto, per il giudice bolognese un Paese che non lascia fare il gay pride non è sicuro per nessuno: neppure per un terrorista di Hamas il quale pure, notoriamente, i partecipanti ad un gay pride li farebbe tutti almeno fustigare. Quindi, noi questo stesso terrorista di Hamas non possiamo respingerlo: pure se è lui stesso ad aver fustigato i partecipanti ai gay pride del proprio Paese, pure se egli intende fustigare i partecipanti ai gay pride nostrani.
Dove si nota un assai curioso cortocircuito logico, in base al quale noi dovremmo proteggere tanto il perseguitato che il persecutore. Di modo che la persecuzione del perseguitato procura, al persecutore, la nostra protezione. Giungendo al paradosso giuridico, che il diritto umanitario funziona da incentivo alla persecuzione. E tale paradosso giuridico, il giudice di Bologna vorrebbe farselo benedire da CGUE. Roba che manco al circo.
Un equivoco di fondo
Il giudice si esprime nei termini seguenti: “quello per cui potrebbe definirsi sicuro un paese in cui la generalità, o maggioranza, della popolazione viva in condizioni di sicurezza” sarebbe “un equivoco di fondo”.
Qui giungono le ormai famose parole del giudice sulla Germania hitleriana, che – secondo lui – “era un Paese estremamente sicuro per la stragrande maggioranza della popolazione tedesca”, un Paese nel quale “oltre 65 milioni di tedeschi vantavano una condizione di sicurezza invidiabile” (naturalmente “fatti salvi gli ebrei … gli omosessuali, gli oppositori politici o gli zingari”). Così come “l’Italia sotto il regime fascista”, a proposito della quale – nell’articolo – il giudice ricorda “il detto popolare per cui durante il fascismo si dormiva con le porte aperte”.
Parole estremamente controproducenti, a danno dell’argomentazione del giudice stesso che le ha scritte. In quanto, con esse, egli afferma che una dittatura – persino hitleriana – produce una condizione di sicurezza invidiabile per la “generalità della popolazione”. Ma, allora, perché mai dovremmo offrire protezione a tale “generalità della popolazione” … se il giudice stesso afferma come – persino sotto un regime hitleriano – essa viva in una condizione di sicurezza?!? Addirittura, invidiabile?!?
Motivo I: sentenze estranee
L’ordinanza presenta tre argomenti ed un appiglio giuridico, uno più fantasioso dell’altro. Il primo è il richiamo a due pronunciamenti giudiziali: uno del Conseil d’État francese, che ritenne illegittima la designazione come paesi sicuri di Senegal e Ghana, “perché vi è persecuzione delle persone lgbtqia+”; il secondo della Corte Suprema inglese, che ritenne illegittima la designazione come paese sicuro della Giamaica, “in ragione della persecuzione delle persone lgbtqia+”.
Purtroppissimo, in entrambe i casi fondandosi quelle corti sul richiamo della disposizione interna … e non del diritto unionale, che pure è l’unico a rilevare in sede del rinvio pregiudiziale che qui ci interessa. E non basta certo la considerazione – buttata lì nell’articolo – che, “in questa materia, dove i princìpi sono comuni, la consultazione della giurisprudenza straniera è quanto mai utile e opportuna” … perché, appunto, di giurisprudenza straniera si tratta. Ripetiamolo bene: non straniera in quanto unionale, ma straniera in quanto estranea, rectius irrilevante.
Motivo II: la fluidità
Il secondo è più un argomento di accompagnamento. Al giudice appare che “raramente una minoranza è segnata da confini netti e facilmente identificabili”: per lui, chi sia lgbtqia+ equivale (“rectius”) a chi invochi di essere lgbtqia+.
Purtroppissimo, la direttiva 2011/95/UE (II procedura), è specifica nel dettare come sia “irrilevante che il richiedente possegga effettivamente le caratteristiche razziali, religiose, nazionali, sociali o politiche che provocano gli atti di persecuzione, purché una siffatta caratteristica gli venga attribuita dall’autore delle persecuzioni” (II procedura, a.10). Tradotto, chi è lgbtqia+ non equivale a chi invoca di essere lgbtqia+, ma solo a chi è ritenuto essere lgbtqia+ dall’autore delle persecuzioni.
Rieccolo il confine netto – molto netto – fra chi è oggetto di persecuzione e chi meramente invoca di esserlo: il diritto protegge il primo, il giudice bolognese vuol proteggere pure il secondo … cioè, proteggere chiunque, far entrare laqualunque.
Motivo III: la soggezione culturale
Il terzo argomento è ancora più debole. Al giudice non appare realistico che un appartenente ad una minoranza perseguitata sia “in grado di narrare immediatamente il proprio vissuto, in ragione della [previa] necessità di sottrarsi alla soggezione culturale dovuta al contesto di provenienza”. Argomento cui il giudice tiene assai, sino al punto da annotare che, dai barconi, sbarcano pure donne “sovente ancora oggetto di tratta al momento dell’arrivo”: col che egli ammette che la migrazione è anche una tratta di esseri umani … l’argomento preferito della parte contraria alla migrazione clandestina, la parte politica che egli – certamente – osteggia.
Purtroppissimo, la Convenzione Internazionale e relativo Protocollo Aggiuntivo sono specifici nel riferirsi a chi viva “nel giustificato timore d’essere perseguitato” (a.1). Dunque, è onere del richiedente affermare l’esistenza di tale timore.
E, purtroppissimo, è la direttiva 2011/95/UE (II qualifiche) a scandire che “gli Stati membri possono ritenere che il richiedente sia tenuto a produrre quanto prima tutti gli elementi necessari a motivare la domanda di protezione internazionale”, fra i quali spiccano “i motivi della sua domanda di protezione internazionale” (a.4).
È in base a tali tre inconsistenti argomenti che il giudice conclude che “definire la nozione di Paese di origine sicuro sulla base della sicurezza assicurata alla generalità della popolazione è incompatibile col sistema della protezione internazionale”. Mentre, invero, ad essere incompatibile è il suo manifesto tentativo di trasformare il sistema della protezione dei perseguitati, in un sistema di libera circolazione dei non-perseguitati e dei persecutori.
Motivo IV: un inconsistente appiglio giuridico
Viene poi il necessario – ancorché decisamente fantasioso – appiglio giuridico. L’Allegato I della direttiva 2013/32/UE (II procedura), che recita: “dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95”. Che il giudice propone di leggere come “intesa a differenziare uno stato di cose in cui la persecuzione è endemica, cioè si verifica nel corso ordinario delle cose, da uno in cui possono esserci isolati episodi di persecuzione”. Detto altrimenti, la nozione di generalmente non andrebbe riferita alla generalità della popolazione.
Sicché, un paese sicuro per la generalità della popolazione sarebbe quello in cui nessuna infima minoranza subisce una persecuzione “sufficientemente sistematica e ordinaria”. Altrimenti, la persecuzione di quell’infima minoranza cessa di essere una “situazione particolare” e diviene causa di protezione per la generalità della popolazione. Pure dei non-perseguitati, pure dei persecutori.
Purtroppissimo, tutta la normativa europea esplicitamente lo esclude: (1) il I procedura esplicitava che ciascuno Stato membro dell’Ue poteva “designare un paese o parte di esso sicuri per un gruppo determinato di persone in detto paese” (a.30); (2) il II procedura parla di “minacce alla sua vita ed alla sua libertà” – sua del rifugiato – e di “sicuro nel suo caso specifico” – suo del rifugiato -; inoltre, “per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale” (a.38), laddove il parallelo II qualifica collega tutti e tre i termini “razza, religione, nazionalità” alla appartenenza ad “un particolare gruppo sociale”; (3) il III procedura esplicita che l’Ue e ciascuno Stato membro dell’Ue potrà designare un paese terzo come paese di origine sicuro “con eccezioni per determinate parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili” (a.61).
Perciò, è univoco che la nozione di generalmente vada riferita alla generalità della popolazione. E, al giudice bolognese, manca qualsivoglia argomento e/o appiglio giuridico: la sua lettura del diritto unionale vigente è, semplicemente, immaginaria; la sua affermazione che “il riferimento alla condizione di sicurezza della generalità della popolazione è carente di base giuridica” è, semplicemente, destituita di ogni fondamento.
L’obiettivo vero: l’ingresso indiscriminato
Ma, allora, perché il giudice produce tante affermazioni tanto manifestamente infondate? Perché tutto questo sforzo di introdurre – per la via giudiziaria – un diritto tanto manifestamente contrario al diritto positivo vigente?
La domanda è legittima, in quanto nulla vieterebbe al giudice di rifiutare il rimpatrio al richiedente che dimostri di appartenere ad un gruppo di persone perseguitate, pur se in un paese sicuro. Ciò che il giudice sa benissimo: è la sua stessa ordinanza a ricordare che “il sistema della protezione internazionale è, per sua natura, sistema giuridico di garanzia per le minoranze esposte a rischi provenienti da agenti persecutori, statuali o meno”.
E, ancora, è tautologico che il tema del rimpatrio non si applichi affatto al richiedente che abbia personalmente titolo alla protezione, pur provenendo da un paese sicuro. Dunque, il giudice potrebbe serenamente respingere il rimpatrio del bangladino, se esistessero ragioni a quest’ultimo personali. Di nuovo, perché non lo fa?
La risposta la dà il giudice stesso, nell’articolo. Il suo problema, è che “capita in un numero assai consistente di ricorsi, che il richiedente asilo invochi una circostanza attinente alla protezione internazionale … non su una base individuale, ma per rilievi d’ordine generale”.
Tradotto, il richiedente non dimostra – ma forse nemmeno sostiene – di appartenere ad un gruppo di persone perseguitate. Perciò, il giudice dovrebbe consentire il rimpatrio di quello e di tutti gli altri bangladini parimenti non-perseguitati. Ed è perché egli manifestamente non vuole, che procede lui stesso a fare il lavoro del richiedente: ipotizzando una clausola generale di non sicurezza per il Paese in cui il detto richiedente dovrebbe essere rimpatriato.
Per farlo, certo egli si trattiene dal travisare la sentenza CGUE alla maniera del Tribunale di Roma, tuttavia egli non si trattiene dal chiedere a CGUE di travisare essa stessa il diritto unionale. Ciò che è nei suoi poteri, ma è pure una gran perdita di tempo.
Conclusioni
Insomma, al Tribunale di Bologna siamo riconoscenti, per aver confutato il decreto del Tribunale di Roma del 18 ottobre 2024. E non gli contestiamo affatto il potere di proporre un rinvio pregiudiziale.
Mentre, consideriamo il resto della sua ordinanza come basato su un nulla giuridico. Al quale manca solo pro tempore una motivata risposta contraria, da parte di CGUE. In attesa che la prossima entrata in applicazione del blocco legislativo costituito dal III qualifiche e III procedura giunga a sancire erga omnes la totale e definitiva ragione del governo italiano. Così che non se ne parli più e CGUE possa tornare a occuparsi di rinvii pregiudiziali seri.