“Buongiorno a tutti. In un certo senso questa è la prima volta che ho l’opportunità di iniziare a condividere con voi come si stanno delineando la struttura e la filosofia di quello che sarà il mio rapporto”. Inizia così quello che, a detta di molti, sembrerebbe il nuovo What ever it takes di Mario Draghi pronunciato durante l’ultima Conferenza europea a La Hulpe in Belgio.
“L’Europa ha avuto un focus sbagliato” tuona l’ex premier, quasi come fosse un’ammissione di colpa, elencando una serie di ragioni a conferma della sua tesi. “Ci siamo rivolti verso l’interno – continua – vedendo i nostri concorrenti tra di noi anche in settori come la difesa e l’energia”.
Sorge spontaneo, a questo punto, domandarsi quale sia stato ad oggi il concetto di Europa. In una fase emergenziale come quella attuale, in cui il senso di “unione” dovrebbe farsi largo per affrontare le varie crisi, iniziano a sbrigliarsi i primi segni di vulnerabilità; è come se si stesse iniziando a giocare a carte scoperte, smascherando quel filo di ipocrisia eurocentrica per cui sarebbe giunto davvero il tempo di una necessaria Unione europea a dispetto di quella vissuta finora: una Europa delle nazioni.
Dal discorso di Draghi si palesa, in tutta la sua sottile e complessa distorsione, quella realtà europea che noi stessi abbiamo così creato. Un sistema politico-finanziario che si sorreggerebbe e spalleggerebbe ponendo in “opposizione” i vari Stati membri. Un’economia di pesi e contrappesi che tenta di “aiutarsi” auto-bilanciandosi. In pratica, una struttura che si autoalimenta e che risulta spesso cieca o superficiale verso l’esterno.
Forse il mea culpa dovrebbe partire proprio dalla coscienza della mancanza di una visione comune, di un obiettivo. Cioè, dove vogliamo andare? Dove vogliamo arrivare? Cosa vogliamo diventare? Banalmente, è proprio l’assenza di queste semplici domande a rappresentare oggi il vulnus principale della nostra situazione geopolitica ed economica.
Come si fa a sostenere che “il mondo sta cambiando rapidamente e ci ha colti di sorpresa”? Le osservazioni dell’ex banchiere centrale sono tutte oneste e intelligibili, tuttavia il disegno che questa volta si è desunto è quello di un politico in bianco e nero.
Sono stati tanti, infatti, i segnali giunti da più fronti nel corso di questi ultimi decenni – Russia, Cina, Stati Uniti. La potenza cinese, per esempio, ha un apparato che ruota attorno ad uno stesso partito che ha una precisa visione e sa ciò che vuole, ha una prospettiva, e passo dopo passo conquista terreno.
Anche la Russia di Putin ha sempre mandato messaggi chiari, forse da noi occidentali poco considerati. Ma i segnali ci sono stati eccome. Come è possibile sostenere, dunque, che il mondo ci abbia colti di sorpresa? Siamo tuttora cullati, forti di questi ultimi settant’anni, dall’ombrello di sicurezza americano… in virtù di questo appoggio non siamo riusciti a pensare ad una nostra difesa. Ci siamo concentrati esclusivamente su una nostra economia.
Siamo quanto meno coscienti che anche gli Stati Uniti trumpiani hanno ormai iniziato ad accendere le prime spie di una certa insofferenza verso noi europei? Possiamo essere certi che gli americani siano disposti a sacrificare una loro Chicago per una nostra Berlino?
Al netto delle prime osservazioni introduttive, persino banali in alcuni casi, il report di Draghi arriva – meglio tardi che mai – a questa importante presa di coscienza: la necessità di realizzare un cambiamento radicale dell’Europa e una trasformazione dell’intera economia europea. Chissà che l’Europa possa davvero diventare una grande potenza competitiva sotto il lume della ragione, anche questa volta, di Mario Draghi…!