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Il ritorno della politica e le insidie della transizione Draghi-Meloni

Superata l’anomalia tutta italiana dei governi tecnici e di salute pubblica, si torna al manuale della politica: chi vince governa. Ma occhio a non cadere in tentazione…

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Dall’inizio della Seconda Repubblica sono stati quattro i governi tecnici, vale a dire presieduti da personalità esterne ai partiti, ad aver avuto l’onere e l’onore di guidare il nostro Paese. Il primo fu quello presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, sul finire dell’XI legislatura, il secondo esecutivo tecnico fu quello guidato da Lamberto Dini, dopo la caduta del Berlusconi I.

Successivamente, nel 2011, il presidente Napolitano incaricò Mario Monti e anche in quel caso la composizione ministeriale prevedeva soli tecnici prestati alla politica. L’ultimo, in ordine cronologico, è quello guidato dall’ex presidente della Bce, Mario Draghi. Chiamato per far fronte alla crisi pandemica e sorretto, fino alla sua caduta, da un’amplissima maggioranza parlamentare ad esclusione di un unico partito d’opposizione.

L’unicum italiano

Paolo Mieli, giornalista e saggista, anche lui in passato grande ammiratore degli esecutivi extra-politici, evidenziava con grande lucidità l’enorme differenza tra i governi italiani e quelli europei e si poneva la seguente domanda: “Noi siamo l’unico Paese al mondo che ha fatto ricorso a governi tecnici e questo ultimamente è diventato una norma. Come mai nessun Paese al mondo ci ha imitati?” Una questione dal mio punto di vista dirimente ma purtroppo lontana dal dibattito politico nostrano.

Tutti i limiti e le contraddizioni di questa forma governativa estranea alla politica tout court, perfino quello presieduto da Mario Draghi, sono davanti ai nostri occhi: nelle pieghe dei risultati elettorali e, numeri alla mano, nelle percentuali ottenute dai partiti.

L’unicum italiano dei governi tecnici, chiamati a far fronte alle crisi economiche prima e sanitarie poi, oltre ad aver creato una disillusione generale verso la politica, ha tolto centralità all’esercizio democratico del voto.

La causa dell’astensione record

L’abitudine di vedere maggioranze diverse da quelle designate dal voto popolare ha alimentato l’astensione che, nelle ultime elezioni politiche, ha toccato la percentuale più alta dal 1948 ad oggi: solo il 64 per cento degli italiani aventi diritto si è recato alle urne.

E quel 64 per cento ha espresso un forte dissenso verso i partiti che si rifacevano all’esperienza tecnica uscente, quella guidata da Mario Draghi.

Vincitori e sconfitti

Dagli scranni dell’opposizione Giorgia Meloni si è sempre opposta alle politiche di Draghi ed è l’unica reale vincitrice di queste elezioni. Matteo Salvini, che ha fatto leva sul senso di responsabilità e ha deciso di entrare nel governo di unità nazionale, ha subito una grave sconfitta, soprattutto nel Nord.

Il Movimento 5 Stelle, calcando la mano sul disagio sociale e rispolverando il reddito di cittadinanza, ha rivendicato la scelta di aver fatto cadere il governo Draghi e, pur dimezzando i voti del 2018, è riuscito ad ottenere il 15 per cento. Gli italiani, nel ruolo di professori, hanno bocciato l’agenda Draghi portata avanti dal leader di Azione, Carlo Calenda, e in parte da Enrico Letta, prossimo a lasciare la guida del Partito democratico.

Ritorno al manuale della politica

Questa volta è diverso. Le elezioni del 25 settembre per molti versi rappresentano un ritorno al manuale classico della politica: chi vince le elezioni governa, fin da subito, chi perde si accomoda all’opposizione. Si passa da un governo “tecnico” di alto profilo ad un governo fondato su un mandato popolare netto.

Finiscono le esperienze governative tra maggioranza anomale, tra chi viene da storie politiche e culturali diverse, così come i governi di salute pubblica, e si torna ad un semplice, ma non per questo banale, governo politico che dovrà rispondere al mandato ricevuto dagli elettori.

Sembra un passaggio chiave per una democrazia parlamentare, una classica routine politica tra governo e opposizione, tra centrodestra e centrosinistra, ma in Italia ne avevamo perso l’abitudine.

Le insidie della transizione

Se Giorgia Meloni diventerà presidente del Consiglio, e tutto fa pensare che ciò avverrà, sarà la prima da undici anni a questa parte ad esserci arrivata dopo aver corso alle elezioni da leader di un partito. Non c’è riuscito Bersani, che pure prese il 25 per cento, e non c’è riuscito nel 2018 Di Maio, che addirittura ottenne il 32 per cento.

Ed è in virtù di queste considerazioni, che la leader di Fratelli d’Italia dovrà gestire le prossime settimane con assoluto riguardo. La cosiddetta “transizione” dal governo Draghi al primo governo Meloni è un passaggio tanto importante quanto colmo di insidie.

Dovrà fare attenzione all’assegnazione dei ministeri, penso ai ruoli chiave dell’Interno, degli Esteri e dell’Economia, evitando di affidarsi ai tecnici ma puntando sulle migliori personalità politiche a disposizione. Il centrodestra dovrà essere abile a non cadere nelle tentazioni “tecniche”, a non farsi commissariare dall’alto e a tenere in primo piano l’agenda delle cose da fare.

La cooperazione con il governo Draghi, soprattutto per quanto riguarda la legge di bilancio da varare entro la fine dell’anno, è inevitabile, i tempi sono stretti e le risorse sono poche, ma affidarsi completamente a personalità tecniche sarebbe un errore.

Tenere la barra politica dritta sarà, per la premier in pectore, un obbligo verso i suoi elettori, più del 26 per cento degli italiani. Margaret Thatcher avrebbe detto: “Staremo in piedi sui principi, o non staremo in piedi affatto”. Rafforzare prima le proprie idee e convinzioni politiche per poi governare e dialogare. Fare altrimenti, vorrebbe dire abdicare ad un programma politico e affidarsi all’ennesimo governo tecnico mascherato.

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