We The People versus We The Establishment. Questo sembra essere il senso della sfida intorno alla stagione delle riforme istituzionali del governo Meloni. Da un lato c’è una maggioranza che ispira la sua azione riformatrice ai valori fondanti del costituzionalismo liberaldemocratico, cercando, non senza fatiche contraddizioni e criticità che evidenzieremo, di:
- Dare una proiezione istituzionale alla sovranità popolare attraverso l’elezione diretta del presidente del Consiglio;
- Rafforzare il presidio costituzionale di tutela delle libertà, cioè il giudice, mediante la separazione delle carriere nella magistratura;
- Attuare un maggiore ed effettivo grado di sussidiarietà verticale, cioè una più diffusa distribuzione dei poteri pubblici sul territorio, mediante l’autonomia differenziata.
Come già detto, ciascuna di queste riforme non è immune da profili problematici, ma esse comunque sembrano perseguire un disegno volto a rafforzare l’ordinamento costituzionale secondo la visione tradizionale del costituzionalismo che, forse, per molti è una visione superata.
Difesa del costituzionalismo liberale
E qui sembra di potere rinvenire una gran parte degli oppositori, i quali sono tali non solo per fisiologici giochi delle parti nella commedia della politica, ma sembrano invece esprimere una contrarietà valoriale più profonda.
Scherzosamente, ma non troppo, abbiamo aperto questo articolo con una formula di confronto che vuole, appunto, sintetizzare questo scontro di prospettiva tra chi comunque si muove nei solchi, anche se talvolta in modo pasticciato, del costituzionalismo tradizionale e chi invece sembra volere andare oltre, immaginando una sostanziale sterilizzazione della sovranità popolare attraverso:
- Forme di governo e sistemi elettorali che facilitino il prevalere di istanze tecniche al di là delle espressioni del voto popolare;
- La prevalenza della fonte giurisprudenziale, la quale sempre più spesso tende a manifestarsi in termini di fonte creativa del diritto relegando come obsoleta la visione tradizione di mera funzione applicativa della legge (visione che allora tendeva ad esaltare la primazia dell’atto normativo creato dalle assemblee elettive che invece ora appare in declino proprio rispetto alle decisioni giurisprudenziali);
- Lo spostamento sostanziale della sovranità verso l’istanza sovranazionale, con rapide accelerazioni in ogni momento di crisi di qualsiasi natura.
Se questo è davvero, come si crede, il senso del conflitto in atto nel nostro tempo, riteniamo si debba avere la responsabilità di schierarsi a favore della difesa del costituzionalismo classico perché, per noi, ancora oggi le parole che devono aprire una Costituzione dovrebbero essere We The People.
In altri termini, il costituzionalismo liberaldemocratico fondato sulla concezione liberale del principio di separazione dei poteri e sulla concezione giusnaturalistica delle libertà è un modello ancora vivo, ancorché ovviamente richieda di essere adattato ai tempi che viviamo. Ma adattare non significa stravolgere.
Il premierato
Ed è in questa prospettiva che procederemo all’analisi critica delle diverse riforme istituzionali, condividendone le finalità valoriali, al fine di valutare ogni possibile profilo problematico perché le buone intenzioni non sono mai sufficienti e, soprattutto, non occorrerebbe mai dare all’avversario delle buone ragioni per criticarti, anche se strumentalmente.
Non potremo, per ovvie ragioni, affrontare tutte le questioni in un unico articolo, ma procederemo con l’analisi degli specifici elementi di maggiore interesse delle varie riforme.
Cominceremo con l’elezione diretta del presidente del Consiglio. In questo articolo affronteremo la questione più generale della scelta sulla forma di governo che a noi sembra obiettivamente quella più problematica. Successivamente, analizzeremo con diversi interventi i seguenti elementi:
- Governo: la disciplina della sua formazione, composizione, compiti e quella della sua fine (dimissioni, voto di sfiducia ecc.);
- Rapporti tra governo e Parlamento e la disciplina elettorale;
- L’incidenza dell’elezione diretta del presidente del consiglio sul ruolo e i compiti del presidente della Repubblica;
- L’abolizione dei senatori a vita.
L’abbandono del presidenzialismo
Dicevamo che probabilmente la questione più problematica è proprio la scelta di avere preferito l’elezione diretta del presidente del Consiglio in luogo di quella indicata in sede elettorale del presidente della Repubblica. Sappiamo già che tale scelta sia dipesa dalla condivisibile volontà di ricercare un consenso più ampio e forse anche per una questione di riguardo istituzionale verso il capo dello Stato.
La scelta non ci ha mai del tutto convinti, perché credevamo, e lo abbiamo scritto più volte, che i tentativi di allargare il consenso sarebbero falliti perché questo centrosinistra non legittimerà mai il centrodestra votando una sua riforma costituzionale significativa, in quanto ciò significherebbe rinunciare definitivamente alla narrazione dell’emergenza democratica che, difatti, è stata puntualmente ripresa sotto le vesti della deriva illiberale o la svolta orbaniana.
Anche la volontà di non radicalizzare politicamente lo scontro per evitare un’analoga dinamica della riforma di Renzi in caso di referendum è destinata a non realizzarsi perché la polarizzazione ideologica sulla riforma, come dimostrano anche le durissime recenti dichiarazioni di alcune senatrici a vita, comporterà necessariamente un voto politico sul governo e, soprattutto, sulla sua leadership.
In definitiva, se si andrà avanti, come comunque si spera, la riforma sarà verosimilmente votata da una maggioranza inferiore ai due terzi e quindi l’eventuale ricorso al referendum ex art. 138 Cost. sarà sostanzialmente un voto sulla Meloni, perché sarà, per l’appunto, costruito sulla più pesante polarizzazione ideologica possibile.
Infine anche la scelta di volere mantenere formalmente indenne il ruolo e i compiti del presidente della Repubblica non sarà sufficiente a evitare un conflitto politico sul tema perché comunque l’elezione diretta del presidente del Consiglio qualche modifica comporta, come vedremo più avanti.
Naturalmente, si obietterà che tutti questi profili sarebbero stati amplificati nel caso di scelta dell’elezione diretta del presidente della Repubblica. E si crede che ciò sia vero. Avremmo avuto una maggiore conflittualità politica e una polarizzazione ideologica più intensa, ma si sarebbe potuto combattere da una posizione di maggiore solidità, perché il presidenzialismo è un sistema molto collaudato e diffuso in varie declinazioni.
Sarebbe stato gioco facile evidenziare le similitudini della proposta di riforma con qualche esperienza ordinamentale a noi prossima (ad esempio, la Francia) per smontare le critiche più surreali (attacco alla democrazia, deriva autoritaria ecc.). Ovviamente coloro che si oppongono per una contrarietà valoriale nei sensi chiariti sopra sarebbero rimasti tali, ma almeno la parte meno ideologizzata del corpo elettorale, cioè la gran parte, avrebbe compreso la strumentalità di certe critiche.
Invece la scelta di preferire un modello originario e privo sostanzialmente di precedenti storici mette la maggioranza nella posizione scomoda di non avere precisi riferimenti cui ancorarsi.
Come già scritto, è vero che il fatto che una forma di governo non si sia mai provata non significa che non possa funzionare, ma è obiettivamente un elemento di criticità, tenuto conto che parliamo di un’esperienza, il costituzionalismo, temporale (più di due secoli) e spaziale (l’occidente) piuttosto ampia.
Non è un caso che in dottrina stanno fiorendo i contributi critici sulla riforma che hanno gioco facile a immaginare profili problematici perché comunque si tratta di ipotesi teoriche. Oggi nessuno sa come funzionerebbe davvero il premierato. Ovviamente possiamo immaginarne il funzionamento anche sulla base della nostra storia istituzionale e costituzionale, ma comunque dobbiamo essere consapevoli che facciamo una significativa opera di astrazione che potrebbe essere condizionata dai nostri preventivi schemi ideologici o politici.
In definitiva, questa pare essere la più seria criticità della scelta compiuta. La maggioranza doveva avere la consapevolezza che una riforma della forma di governo in senso di consolidamento dell’effettività della sovranità popolare sarebbe stata duramente osteggiata e tatticamente si ritiene sarebbe stato più opportuno preferire una soluzione istituzionale più collaudata.
Ad ogni modo, la scelta è stata compiuta e, per le ragioni esposte all’inizio, preferiamo comunque un modello che fornisce una posizione istituzionale alla sovranità popolare rispetto allo status quo.
Infine, paradossalmente, proprio l’eccessiva polarizzazione ideologica e politica sulla riforma “costringe” a schierarsi a favore della riforma, anche in presenza di criticità testuali che si spera siano superati in sede di lavori parlamentari o in sede di applicazione concreta in futuro.
Nel prossimo articolo inizieremo l’analisi del testo, partendo, come detto, dalle disposizioni relative al governo dalla sua formazione alla sua fine.