Politica

In Occidente due modi di regolare il rapporto tra popolo ed élites

Due forme diverse di democrazia rappresentativa: nei sistemi anglosassoni le istanze si formano dal basso, in quelli continentali sono calate dall’alto

Macron Starmer © bluebay2014 e Marina Khromova tramite Canva.com

L’anno in corso sarà ricordato (anche) come un anno di elezioni, dato che esse hanno interessato prima tutti i 27 stati dell’Unione europea, quindi due tra i Paesi più importanti (non solo politicamente, ma anche e soprattutto culturalmente) del vecchio continente, Gran Bretagna e Francia, mentre a novembre si volgeranno le elezioni forse più rilevanti a livello mondiale, quelle americane.

In queste poche righe vorrei lasciare in secondo piano i commenti sui risultati delle elezioni già svolte e le previsioni su quelle future per proporre al lettore alcune riflessioni sul modo in cui le elezioni da entrambi i lati dell’Atlantico si inseriscono nel particolare rapporto che esiste tra élites e popolazione nella politica occidentale.

Le origini di un rapporto contrattuale

Solo nella civiltà occidentale infatti il rapporto tra governanti e governati è impostato da secoli come un rapporto di tipo contrattuale: anche in altri contesti storici, quali le civiltà classiche (Atene, Roma) o non europee (Cina, Paesi islamici) il compito delle élites di governo era quello di tutelare la popolazione, ma mai questo rapporto fu considerato come un contratto, cioè come un rapporto con obblighi reciproci che fa dei governanti i rappresentanti della popolazione (o dell’elettorato), pertanto giustamente la democrazia moderna occidentale è detta “democrazia rappresentativa”.

Le origini di questo rapporto tra governanti e governati risalgono molto indietro nel tempo e si devono ad una fusione tra le tradizioni barbariche, che affidavano il potere al “comandante” della tribù eletto dai capi dei clan familiari, e il diritto romano che fornì i concetti e le leggi per inquadrare in maniera corretta il rapporto tra il re medievale, i nobili (che agivano in rappresentanza delle popolazioni dei loro feudi), gli ecclesiastici (in rappresentanza del clero e della popolazione dipendente da esso) e i rappresentanti dei gruppi dei borghi (i borghesi) cittadini.

Il potere pubblico nel Medioevo

I poteri pubblici medievali non erano democratici nel senso moderno del termine, ma erano rappresentativi: chiunque gestiva potere lo faceva in nome e per conto di qualcun altro. Questo sistema era spesso basato su contratti impliciti, legati a tradizioni antiche, e che quasi sempre avevano un contenuto non proprio equo che penalizzava gli strati più bassi delle popolazione, si pensi ai “servi della gleba”, formalmente uomini liberi, ma legati a contratti che li vincolavano spesso a vita a coltivare il podere signorile, oppure ai servi ecclesiastici o ai “manovali” delle corporazioni che non avevano diritto di esercitare il mestiere.

Restava però fermo il fatto che il potere pubblico ai suoi vari livelli era un potere rappresentativo, esercitato dai governanti non solo nell’interesse, ma anche in nome e per conto dei governati, perché anche se spesso impliciti, fumosi e iniqui i contratti politici esistevano e talora portarono a rivolte e deposizioni dei signori e dei re. Questa concezione rappresentativa del potere è forse la più importante eredità politica che il medioevo ci ha lasciato.

L’unificazione del potere: due modelli

Con le guerre di religione e la nascita degli stati moderni questo mondo fatto di diversi livelli di potere si unifica rafforzando la sua struttura interna, ma lo fa in due modi diversi da cui derivano due differenti modi di essere della democrazia tuttora esistenti in Occidente.

In Gran Bretagna l’unificazione avvenne dal basso: l’autogoverno delle comunità locali, cittadine e rurali, l’autonomia delle strutture ecclesiastiche (appartenenti o no alla chiesa anglicana), il ruolo svolto dai nobili di tramite (anche economico) tra i loro sottoposti ed il monarca, i limiti al potere di quest’ultimo contenuti già nella Magna Carta del 1215 e poi rafforzati dalla “gloriosa rivoluzione” del 1689 finirono per creare una struttura statale coesa ma nella quale il potere era basato su uno sviluppo ascendente dal basso, frutto della visione religiosa radicalmente egualitaria e individualista propria del protestantesimo riformato (impropriamente detto calvinista) che si affermò sia nella chiesa anglicana inglese che in quella presbiteriana scozzese.

Non che questo sistema fosse perfetto, dato che era pieno di distorsioni e di appropriazioni di potere da parte delle élites nobiliari o da parte dei monarchi, ma in esso si mantenne fondamentalmente intatto il rapporto già medievale di rappresentatività, ora unificato a livello statale e la gestione del potere sovrano rimase legata anche formalmente alle istanze portate avanti dal basso dalle diverse strutture del regno, o almeno da parte di quelle più forti.

Nel continente europeo invece la formazione dello stato avvenne con l’unificazione assolutista e fu sempre basata su un rapporto di potere che nasce dall’alto e che dal sovrano (Luigi XIV in Francia, Federico II in Prussia, Maria Teresa in Austria ecc.) scende verso i nobili, gli ecclesiastici e i “borghesi”, il cui ruolo pubblico venne in gran parte ridotto dalla presenza dei funzionari regi, titolati ad operare anche a livello locale.

Anche in questa seconda versione della nascita dello stato, influenzata dalle culture religiose continentali, quella luterana e quella cattolica che entrambe sia pure in maniera diversa riconoscevano il ruolo decisivo delle élites (laiche nel primo caso, ecclesiastiche nel secondo) come guide della popolazione, non viene meno del tutto il rapporto di rappresentatività, ma esso si incarna in una sorta di verifica a posteriori da parte dei sudditi delle decisioni dall’alto, che all’epoca sfociava essenzialmente in una serie di richieste e lagnanze più o meno pressanti contenute in appostiti “quaderni” (i “Cahiers de doléances” francesi) e rivolte al monarca e ai suoi funzionari.

Una rappresentatività ridotta al minimo ma pur sempre esistente, a differenza di quanto accadeva nei grandi imperi non occidentali legati al potere autocratico del sovrano, come ad esempio l’impero ottomano. La società democratica si sviluppò in tempi e con modi diversi nei Paesi occidentali, e in tutti essi assunse in maniera chiara il carattere di democrazia rappresentativa (la “democrazia dei moderni”) nel senso che si è precisato, ma si mantenne la grande differenza: in Gran Bretagna e negli Stati Uniti (il cui sistema politico deriva da quello britannico) la rappresentatività parte tuttora dal basso, mentre nel continente europeo (Francia, Germania, Italia, Spagna ecc.) parte dall’alto, come avveniva negli stati assolutisti.

Due forme diverse di democrazia

Nei sistemi anglosassoni, pur con tutte le distorsioni presenti in essi, le istanze nascono dalla “base” dei movimenti sociali, si incarnano nei programmi dei candidati e le elezioni rappresentano in sostanza il confronto tra le istanze dei diversi gruppi sociali, fatte proprie da questo o quel partito politico, che l’elettorato in generale giudicherà degne o no di accoglimento. Nei sistemi continentali i programmi politici nascono dall’alto (ovviamente tenendo conto delle esigenze popolari) e vengono sottoposte alla approvazione dell’elettorato.

Nel primo caso la logica, come insegnava un mio vecchio professore, è quella del referendum: le istanze salgono dalla società e vengono fatte proprie dalle forze politiche, nel secondo è quella del plebiscito, dove sono le élites a decidere le alternative da proporre al voto popolare.

Due forme diverse di democrazia rappresentativa, di cui la prima a parere di chi scrive (anche se non perfetta) è decisamente preferibile: non è infatti il numero dei votanti che rende più autentica la democrazia – altrimenti il modello ideale sarebbe la Bulgaria comunista di qualche decennio fa, che detiene record imbattuti in questo campo – ma il fatto che nel lungo periodo nelle democrazie dal basso (quelle anglosassoni) ci sono maggiori probabilità che le concrete istanze della popolazione (o meglio dell’elettorato) si affermino al di là dei conflitti momentanei e transitori tra partiti e che sempre nel lungo periodo finiscano per prevalere le istanze e le posizioni politiche moderate ed empiriche, quelle più vicine alle posizioni liberali (conservatrici o progressiste che siano).

Il governo Starmer

In Gran Bretagna il partito conservatore ha subito una disfatta elettorale tutto sommato fisiologica dopo 14 anni di governo, anche se “epocale” nelle proporzioni, ma il partito laburista vincitore, guidato dal premier Keir Starmer, non sembra intenzionato a fare tabula rasa di quanto creato dai governi negli ultimi anni, ma piuttosto a rispettare e a valorizzare le politiche che a suo tempo garantirono la vittoria dei conservatori grazie al fatto che rispecchiavano la volontà popolare, a partire dalla decisione referendaria di uscire dall’Unione europea.

Forse è presto per dirlo ma nel partito laburista si può quasi notare un ritorno a posizioni (condivisibili o meno) di sinistra “classica”, non legate ai dogmi della cultura woke.

La “vittoria” di Macron

In Francia invece, grazie al sistema elettorale a doppio turno (anch’esso un effetto della democrazia calata dall’altro) il presidente Emmanuel Macron con un comportamento politico degno di un piccolo Bonaparte è riuscito a trasformare una sconfitta quasi umiliante patita al primo turno in una indiscutibile vittoria al secondo, giocando sul fatto che gli accordi e i conflitti tra le forze politiche, tutti frutto di decisioni calate dall’alto, non sono riusciti ad ottenere un consenso alternativo capace di mettere in crisi la sua posizione di leader della politica transalpina.

Le elezioni francesi hanno avuto un effetto anche sulla scelta della Commissione dell’Unione europea, e pure in questo caso sono state decisive le decisioni dall’alto, incarnate dai governi dei singoli stati, soprattutto di quelli più forti (Francia e Germania in testa), e dai partiti politici i quali in tutta l’Unione ottengono spesso il voto degli elettori più in base alla affinità ideale (o ideologica) rispetto alle proprie concezioni generali che con riferimento all’accoglimento delle istanze proposte dal basso.

In conseguenza di ciò, in Francia e nel continente prevalgono ancora le contrapposizioni manichee proprie delle élites, più o meno restie ad abbandonare le proprie concezioni dogmatiche (si pensi alle politiche ambientaliste estreme) e pronte a demonizzare, magari chiamandolo “fascista”, chiunque non si riconosce nelle loro posizioni.

La politica “dal basso”

Un ruolo fondamentale le istanze “dal basso” lo stanno giocando invece (nonostante alcune dichiarazioni “feroci”, fatte più che altro ad uso dei mass media) nella campagna elettorale americana: non solo la candidatura dell’ex presidente Donald Trump è frutto della base e non delle élites del partito repubblicano, ma la stessa rinuncia del presidente Joe Biden in parte è stata anche la conseguenza di contrasti tra i delegati democratici (non del tutto placati con la candidatura, ancora non ufficiale della vicepresidente Kamala Harris), contrasti che sono sempre sintomo della capacità di distinguersi dai vertici del partito.

Tenendo conto che le parallele elezioni per il rinnovo della Camera e (parzialmente) del Senato rispecchiano in genere le esigenze concrete dell’elettorato dei vari collegi e stati, possiamo confidare nel fatto che oltre Atlantico la competizione politica, basata sulla rappresentatività “ascendente” e sul confronto empirico e liberale finisca per rimanere ben salda, nonostante qualche (forte) esagerazione mediatica.

Di questo tipo di politica “dal basso” ci sarebbe bisogno, a mio parere, anche nel vecchio continente, ma forse questo andrebbe oltre i limiti che la storia passata di fatto ci impone, limiti non assoluti ma certo difficili da superare, e chi la pensa come il sottoscritto non può che sperare nella moderazione e nel senso dello stato (termini ahimè non molto di moda oggi) delle élites di governo al fine dello sviluppo di una politica meno manichea e soprattutto meno calata dall’alto, perché in quest’epoca di crisi dei valori (anche civili) dello stato moderno la prima vittima rischia di essere proprio la democrazia rappresentativa, che potrebbe fare una fine ingloriosa, anche se le percentuali dei votanti eguagliassero quelle “bulgare”.

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