Durante una delle campagne elettorali del Dopoguerra a Giulio Andreotti che esponeva dal palco le ragioni della Democrazia Cristiana un militante di sinistra a gran voce urlò “agrario!”. Andreotti non si scompose e con voce sottile articolò una risposta che fece scrosciare gli applausi anche di quelli che non erano devoti allo Scudo Crociato.
Gli insulti ideologici della sinistra
Ma prima di scoprire cosa disse il Divo Giulio cerchiamo di capire questi mantra accusatori che di decennio in decennio salgono dal ventre largo della militanza di sinistra.
“Agrario”, in perfetto stile marxista, bollava un avversario con una etichetta sociale che non poteva essere scrollata di dosso: potevi anche essere un galantuomo, ma eri geneticamente colpevole.
E se in Italia, protetta non solo dallo Scudo Crociato ma anche da quello Atlantico, era solo un’offesa verbale, al di là della cortina, nell’universo concentrazionario che faceva capo alla Russia questo genere di accuse basate sull’appartenenza di classe aveva prodotto uno sterminio, l’Holodomor, sul quale solo adesso si sta prestando sufficiente attenzione.
L’accusa di fascismo perde colpi
Certo, l’insulto ideologico per eccellenza era quello di “fascista”. Ma diciamo la verità, il più gettonato degli epiteti offensivi nel corso dei tempi ha perso efficacia. I servizi di La7 sulle origini nere non hanno impedito a Fratelli d’Italia di diventare primo partito.
E d’altra parte il popolo di Bella Ciao ha usato in maniera così estensiva l’accusa di fascismo, da banalizzarla. Peraltro, se De Gasperi era “clericofascista” e Saragat “socialfascista”, se Fanfani era “fanfascista” e Bettino Craxi fascista vero e proprio con pelata e mascellone, come sfuggire alla tentazione di pensare che chiunque indugi su questa accusa decontestualizzata appartenga alla parte più tignosa, più fanatizzata, meno aperta al cambiamento della società italiana?
Un recente succedaneo
Ma arriviamo a un recente succedaneo: l’accusa di neoliberismo. Meno grossolana della definizione polemica di fascismo, questo epiteto fornisce a chi lo scaglia un’aria di saputo economista: “aperto al sociale” e nello stesso tempo esperto delle dinamiche profonde dell’economia.
Poi alla fin fine questo evocare il “neoliberismo”, ovviamente sempre “selvaggio”, somiglia agli stereotipi dei giornalisti in cronaca di provincia, quelli per cui le lamiere dell’incidente sono sempre fumanti.
Volendo cogliere al volo la differenza: chi vede nella sgangherata società italiana il “fascismo” vola di fantasia. Ma chi ci vede il neoliberismo (che per giunta avrebbe sconquassato il mondo, secondo la lezione di Elly Schlein) si esercita nella fantascienza.
L’occasione mancata da Craxi
Sì, perché tutti gli indicatori di libertà economica ci suggeriscono che l’Italia ha mancato il suo appuntamento con il liberismo, quando forse l’occasione era più propizia (i grintosi anni Ottanta?).
Bettino Craxi si fermò a metà strada, perché fu storico il suo stoppare l’inflazione ponendo fine con coraggio al rituale cattocomunista della scala mobile, ma nello stesso tempo rimase impantanato nei mille rivoli dei finanziamenti pubblici a tutte le categorie sociali e politiche che avrebbero potuto essere fidelizzate elettoralmente.
Il suo socialismo riformista avrebbe in verità potuto essere socialismo-liberale, ma la sintesi non avvenne. E poi venne Tangentopoli.
Il momento liberista mai arrivato
Sia detto di passaggio, il neoliberismo non è il gobbo del Quarticciolo che imperversa nelle periferie terrorizzando i meno agiati. È la formula che prevede di liberare le energie produttive determinando (in maniera virtuosa, o anche un po’ birichina come fece Ronald Reagan) un sollievo fiscale.
In questo senso è qualcosa di molto diverso dall’ordoliberismo di marca berlinese che invece predica “conti in ordine con più tasse”.
Se ora noi scorriamo governo per governo la storia degli ultimi sessanta anni ci accorgiamo che il momento liberista di una diminuzione della pressione fiscale non si è mai organicamente concretizzato. E oggi, con una spesa pubblica che sfiora il 60 per cento del Pil, suona ridicolo evocarlo.
La risposta di Andreotti
E allora cosa rispondere ad una Elly Schlein che apre la sua candidatura alla guida del Partico Democratico con una tirata contro il neoliberismo (vale a dire minacciando una gragnuola di nuove tasse contro i ceti medi, perché questo è il significato arcano della carta utilizzata)?
Potremmo ritornare indietro nei decenni a quella piazza ruspante di Ciociaria nell’Italia più schietta e diciamo pure felice degli anni Cinquanta e a quel palco da cui, con prudenza felina, si affacciava il giovane ministro Andreotti.
“Agrario!” gli gridò il comunista.
“Non è vero, ma lo prendo come un auspicio!” ribatté Andreotti tra risate e applausi.
“Il modello neoliberista opprime l’Italia e il mondo”?
“Non è vero, ma lo prendiamo come un auspicio…”