La versione che il CIO ha cercato (con qualche successo, purtroppo) di far passare è che Imane Khelif e Lin Yu-Ting sono donne, lasciando intendere che soffrono di iperandrogenismo, ovvero presentano alti livelli di androgeni nel corpo, ma che non sarebbe giusto escluderle dal torneo di boxe femminile perché, appunto, risultano essere donne all’anagrafe, non hanno compiuto alcuna transizione, non sono transgender.
Ma l’IBA (International Boxing Association) ha smentito questa versione, dichiarando il 31 luglio scorso che due test del 2022 e 2023 hanno stabilito che Khelif e Lin “non soddisfano gli standard di ammissibilità per le competizioni femminili” e precisando che non si tratta di test dei livelli di testosterone, il che significa che sono test genetici: avrebbero cromosomi maschili XY. La stessa IBA ha poi reso pubblica una lettera del 6 giugno 2023 in cui comunicava al CIO i risultati di questi test, allegandoli.
La versione del CIO
Per quanto si possa accusare l’IBA di essere inaffidabile e in mani russe, il CIO non ha potuto smentire i risultati di questi test. Il portavoce Mark Adams, confermando la ricezione della lettera, li ha definiti “illegittimi” (“nessuno vuole tornare ai giorni in cui si facevano i test del sesso, è una questione di diritti umani”) ma non li ha dichiarati falsi. Il CIO ha risolto così la questione degli atleti biologicamente maschi che partecipano agli sport femminili: abbandonando i test genetici a partire dalle Olimpiadi di Sidney nel 2000.
Decifrando le parole del presidente del CIO Thomas Bach (“abbiamo due pugili che sono nate donne, sono cresciute come donne, hanno passaporti femminili e hanno gareggiato come donne per anni. Questa è una chiara definizione di donna. Non c’è mai stato il minimo dubbio al riguardo”), l’ultima linea di difesa dell’ammissione dei due pugili al torneo olimpico di boxe femminile sembra essere: “non lo vogliamo ammettere ma ok, anche se avessero cromosomi maschili XY, poiché sono state identificate alla nascita come femmine e continuano a identificarsi come tali, sono donne”.
Ma il CIO e qualsiasi autorità sportiva non possono trincerarsi dietro i documenti di identità, perché devono garantire che le donne competano con altre donne e non con chiunque abbia un vantaggio biologico maschile. E gli androgeni sono il principale fattore delle differenze tra i sessi nelle prestazioni sportive.
DSD: disturbi della differenziazione sessuale
Esistono due categorie di atleti con cromosomi XY che sempre più spesso vengono ammessi nelle competizioni femminili: uomini che hanno effettuato la transizione, oppure con DSD (disturbi della differenziazione sessuale), condizioni dette anche di intersessualità.
Khelif e Lin apparterrebbero a questa seconda categoria. Dunque non sono donne con alti livelli di testosterone, come ha provato a far credere il CIO, ma uomini che per competere nelle categorie femminili semmai se lo abbassano.
I DSD rilevanti per lo sport sono quelli maschili, il deficit di 5 alfa reduttasi (5-ARD) e l’insensibilità parziale agli androgeni (PAIS). Come ha ben spiegato la prof. Doriane Lambelet Coleman in un lungo articolo su Quillette, gli atleti con 5-ARD e PAIS “hanno cromosomi XY, hanno i testicoli (di solito interni), producono testosterone ben oltre i livelli femminili; i loro recettori degli androgeni leggono ed elaborano il loro T elevato; e di conseguenza, i loro corpi si mascolinizzano durante l’infanzia e la pubertà nei modi che contano per lo sport”.
Dunque, abbassare i livelli di testosterone successivamente, da adulti, non annulla il vantaggio acquisito di una struttura fisica, ossea e muscolare, in tutto e per tutto maschile. In altre parole, “le loro variazioni rispetto alla norma maschile (come i genitali esterni sottosviluppati) sono irrilevanti per le prestazioni atletiche. Quando entrano in una competizione femminile, si portano dietro tutti i vantaggi biologici maschili“.
Lo ha ben spiegato anche la biologa Carole Hooven, senior fellow dell’American Enterprise Institute:
Il problema è che gli atleti con deficit di 5 alfa reduttasi (5-ARD) possono essere socializzati come donne, possono essere legalmente riconosciuti come donne e possono vivere e identificarsi come donne; ma sono maschi. Questi individui di solito nascono con genitali dall’aspetto femminile, il che può portare a identificarli come femmine. Anche se le persone affette da 5-ARD non possono convertire il testosterone in un androgeno più potente, il DHT, necessario per lo sviluppo dei genitali maschili e di altre caratteristiche maschili, sperimentano i benefici tipici della pubertà maschile, che dà loro un vantaggio in forza e velocità rispetto alle donne.
Questo perché il DHT “non è necessario per lo sviluppo e il mantenimento della muscolatura tipica maschile” e “tutte le prove scientifiche dimostrano che la riduzione del testosterone maschile in età adulta non annulla i benefici fisici della pubertà maschile”.
Una scelta ideologica e anti-scientifica
Khelif e Lin non hanno colpe, hanno rispettato le regole di ammissione alle Olimpiadi. Il presidente del Coni Giovanni Malagò assicura di aver ricevuto il “documento sulla regolarità della partecipazione di Khelif al torneo” – cioè il passaporto (sic!). Ma nessuno ne dubita. Nessuno ha dubbi sulla “regolarità della partecipazione di Khelif”. Sono le regole del CIO (come la decisione di abolire i test genetici per un malinteso principio di “inclusività”) il problema che sta provocando sofferenze sia a Khelif e Lin, sia alle atlete che se li trovano di fronte sul ring.
La posizione del CIO è che gli atleti XY con diversità di genere non hanno un “vantaggio maschile” perché maschi, o per i loro livelli di testosterone maschile, ma questo contrasta con le conoscenze scientifiche sul ruolo del testosterone come principale fattore del divario prestazionale tra i migliori maschi e le migliori femmine.
Molte donne hanno il testosterone alto, ha provato a giustificarsi il CIO, seguito a ruota dai media compiacenti che sposano la stessa visione di “inclusività”. Ma queste donne, comprese quelle con ovaie policistiche, hanno livelli di testosterone comunque nel limite superiore dell’intervallo femminile, non al di fuori di esso o addirittura all’interno dell’intervallo maschile. Il loro sesso non è in dubbio.
Il codice “T elevato” in un atleta che cerca di competere nella categoria femminile, invece, indica doping con androgeni esogeni, oppure un maschio biologico con androgeni endogeni biodisponibili. E non c’è alcuna indicazione che Khelif o Lin siano dopati. Il motivo per cui molte federazioni e lo stesso CIO per anni hanno utilizzato il “T” come indicatore del sesso, spiega ancora la prof. Doriane Lambelet Coleman, è la sua affidabilità: “né le ovaie né le ghiandole surrenali producono T nella gamma maschile, solo i testicoli lo fanno. Se stai cercando il sesso biologico anziché il genere legale, è sicuramente più accurato di un passaporto”.
Ma il CIO non vuole testare il sesso degli atleti perché lo ritiene “discriminatorio” nei confronti degli atleti XY che si identificano come donne. Si tratta di una scelta ideologica, non scientifica, che accontenta i sostenitori dei diritti dei trans ma ammazza lo sport femminile.
Come conclude Lambelet Coleman, infatti, “lo sport femminile non ha ragione di esistere se non per le differenze tra i sessi biologici che portano ad un divario nelle prestazioni tra i migliori atleti maschi e femmine”. Qualsiasi regola di ammissibilità – come quelle del CIO – che neghi o ignori la biologia legata al sesso tende a cancellare lo sport femminile.
Se la presenza di cromosomi XY può non implicare essere uomo in una molteplicità di situazioni, nello sport è l’unica cosa che conta e negarlo significa escludere le donne.