Non vorrei che fosse preso come un auspicio, ma solo come un interrogativo: riuscirà a sopravvivere l’ultimo legittimo erede del PCI se pur con un maquillage del tutto significativo, nuovo segretario, nuovo progetto, forse anche nuovo nome?
Un responso positivo sembra del tutto scontato, specie a chi è abituato da lungo tempo a considerarlo un rilievo importante del panorama politico, confermato dal fatto di essere stato l’unico a sopravvivere a Tangentopoli, l’unico a mantenersi al governo quasi ininterrottamente nell’ultimo decennio, a ricoprire da ultimo contemporaneamente la Presidenza della Repubblica, la vicepresidenza del Consiglio Superiore della Magistratura, la Presidenza del Parlamento europeo, la carica di commissario all’economia in quel di Bruxelles.
Spazi già occupati a sinistra e al centro
Ma quel che ritengo essere un dato nuovo è che nel Pd – pur nel dualismo tipico di un partito di sinistra fra “riformisti” e “massimalisti”, più semplicemente fra chi guarda al centro e chi guarda a sinistra – prevale oggi l’idea che sia possibile risollevarsi con una sorta di purificazione interiore, tale da dare luogo ad una unità competitiva rispetto ad uno spazio politico ed elettorale capace di rimodellarsi a misura del cambiamento del partito.
Non è così, tale spazio è al momento largamente occupato, comprimendo quello attualmente disponibile per un nuovo Pd, da un lato da Giuseppe Conte, dall’altro da Carlo Calenda. Non si tratta di sigle, ma di posizioni presidiate da leader, confortati da consensi in crescita, che incidono sulla tradizionale strategia del Pd, di presentarsi come “a vocazione maggioritaria” nel senso non tanto di una primazia elettorale, ma di una rappresentatività estesa alla larga parte della società.
Nonché di auto-definirsi “di lotta e di governo”, capace di giocare entrambi le parti, quando esse appaiono ormai inconciliabili nella contrapposizione fra una opposizione radicale, trasferita da un Parlamento saldamente in mano alla destra nelle piazze, coltivandone la rabbia sociale, cosa in cui i 5 Stelle sono certamente più smaliziati; e opposizione responsabile, disponibile a dialogare con la maggioranza parlamentare, cosa che Calenda ha già cominciato a fare, anche se non è possibile capire al momento se si tratti o meno di una mossa tattica.
Partito di governo
Di fatto, per quanto tralatizia, sì da essere sempre immanente, la auto-rappresentazione di un partito “di lotta e di governo” non trova conferma nel passato decennio, dove il Pd è stato un partito di governo, fino a identificarsi completamente nell’”agenda Draghi”, contando di condividerne il credito, fino al punto di contrastare il vento di destra che stava crescendo nel Paese.
Una politica estera rigidamente europeista e atlantista, attestata su una solidarietà all’Ucraina estesa alla fornitura di armi; una politica economica strettamente condizionata dalla enormità del nostro debito pubblico. Su questa linea è maturata la frattura fra il Pd e i 5 Stelle che ha aperto una competizione sul mercato elettorale, a stare ai sondaggi a tutto favore dei 5 Stelle, visto che al Pd è venuta a mancare la parte più incisiva della sua campagna elettorale.
A prescindere dalla scarsa resa della incombente minaccia fascista, Giorgia Meloni è riuscita a tranquillizzare governi e mercati, collocandosi sulla scia del governo Draghi. E al Pd non è restato molto per compensare la sua relativa rilevanza parlamentare con una mobilitazione delle piazze, come pur si è proposto di fare, rubando il tempo ai 5 Stelle.
Nessun dubbio circa il successo della manifestazione del 17 dicembre dovuto ad un sussulto del patriottismo di partito, ma questo non è sufficiente per alimentare una mobilitazione continua, come è dato di fare ai 5 Stelle, battendo su due temi a largo effetto, a prescindere dalla praticabilità delle soluzioni addotte, la pace e il reddito di cittadinanza.
Che fare?
Che fare, dunque? Certo un dibattito congressuale che definisca il futuro percorso del Pd, ma non dovrebbe svolgersi secondo l’abusata distinzione fra sinistra e destra, previa una faticosa e dubbia elencazione dei tratti peculiari dell’una e dell’altra, sulla premessa della nota definizione di Bobbio, per la quale sinistra vuol dire eguaglianza e destra libertà.
Questa andava bene con una società ancora prevalentemente classista, non con quella attuale estremamente frammentata in un intreccio inestricabile di valori, interessi, referenti, dando vita a molteplici ceti, stati sociali, livelli di reddito.
Tanto meno tale distinzione dovrebbe fondarsi di per sé in ragione delle alleanze con quella regola estremamente dannosa, osservata nella recente consultazione elettorale, di dover tenere a tutti i costi la porta aperta alla più irrisoria forza che si auto-definisse di estrema sinistra, anche a costo di scoprirsi al centro.
Non esistono più soluzioni “identitarie”
Per quanto possa suonare eterodosso all’orecchio di qualcuno, di per sé un governo del flusso immigratorio o un supporto al nucleo familiare eterosessuale non sono di destra, come, sempre di per sé, un sostegno al reddito o un programma antidiscriminatorio non sono di sinistra.
Per questo è più difficile per il Pd ricostruirsi un consenso che lo allontani dal livello di guardia ormai raggiunto se non superato. Non esistono più a suo favore non solo tematiche ma neppure soluzioni autenticamente identitarie – come per Salvini era il blocco dell’immigrazione e per Conte è il reddito di cittadinanza – sì da vedersi costretto a giocare spesso di rimessa, privilegiando inevitabilmente la critica “distruttiva” a quella “costruttiva”.
Con in più l’handicap pesante di aver avuto nell’ultimo decennio una responsabilità di governo che non ha aumentato, anzi ha fortemente diminuito la sua credibilità.
Pazienza e proposte
Per ora, visto che è il primo a prepararsi ad una sorta di rifondazione, che potrebbe sfociare in una non bene augurante mutazione del nome, il Pd dovrebbe essere più paziente, evitare la trappola di volersi misurare con i 5 Stelle su chi è in grado di riempire di più le piazze e di scandalizzarsi di più di fronte a qualsiasi piccola scivolata del fronte avversario.
Non contare sul tempo breve, spiando ogni sommovimento dell’attuale maggioranza come se dovesse dar luogo ad una irrefrenabile frana, individuare alcune proposte trainanti per la loro capacità di rispondere ad esigenze collettive diffuse, facendole diventare identitarie, evitare la condivisione acritica di una deriva radicale sui c.d. diritti civili, molto vocalizzati ma meno popolari di quanto si creda.
Bisogna distinguersi nell’opposizione, senza cedere ad una facile tentazione di fare barricate su ogni iniziativa governativa, proporre alternative praticabili, mostrare aperture condizionate, a cominciare dalla ridefinizione delle regole del gioco, sui regolamenti parlamentari, sulle autonomie, sulla legge elettorale.
Certo tutto questo accompagnato dal recupero di una presenza territoriale, senza l’illusione di ricostruire un partito delle sezioni, ma comunque dar vita a luoghi, circoli, gruppi di lavoro, movimenti di base, dove far vivere il partito e crescere le dirigenze locali da cui trarre quelle nazionali.