La banalità del buonismo e la necessità di riformare la giustizia

Con la retorica del “siamo tutti colpevoli” la sinistra assolve tutti – e soprattutto se stessa. Ma la soluzione non è aggiungere nuovi reati

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meloni decreto Caivano
  • Moltiplicare i castighi ma non riuscire a fronteggiare i delitti. Così, cittadini doppiamente vittime: sia degli atti delinquenziali che delle esitazioni politiche

Non convince la retorica del “siamo tutti colpevoli” che è seguita all’omicidio del giovane musicista napoletano, Giovanbattista Cutolo. Anzi, per certi aspetti, irrita perché appare come il trionfo della retorica, l’apoteosi del moralismo, la formula semplicistica per mettere tutti sullo stesso piano. Invece, la responsabilità penale è personale e ricade completamente su chi commette certi delitti.

I danni del collettivismo

La generale chiamata in correità è un tic assolutista, quello che poi ha prodotto e, in certi casi, ancora produce forme di governo autoritarie degenerando nel totalitarismo. Il Novecento, da questo punto di vista, è la prova lampante di come certe dottrine politiche (pure contrapposte) possano poi generare le stesse distorsioni e le medesime ricadute negative sulle libertà individuali.

O, più recentemente, il paternalismo sanitario ha dimostrato come sia facile ribaltare il rapporto tra Stato e cittadini, costretti in una posizione di sottomissione rispetto ai pubblici poteri. Insomma, la visione collettivista della società ha già provocato enormi danni ma, incredibilmente, si fa fatica ad affrancarsene.

Forse, per comprendere a fondo certi fenomeni e indagare sulla natura umana, una rilettura (o lettura) di Dostoevskij potrebbe risultare certamente utile e farebbe crollare il muro politicamente corretto costruito dai sermoni e dagli editoriali di questi giorni. L’utopia di imporre il bene (o il buonismo) attraverso le prediche è destinata a fallire oltre che ad annoiare.

L’abbandono delle periferie

Piuttosto, a certe latitudini e in certi contesti, bisognerebbe creare le condizioni per uscire dall’istinto di sopraffazione, dalla propensione a girare armati, dalla ineluttabile accettazione di rapporti umani regolati secondo lo schema dell’homo homini lupus. La ricetta per abbassare il tasso di criminalità è quella già sperimentata all’estero: riqualificare i quartieri più degradati, fornire più servizi migliorando l’offerta formativa e lavorativa.

Certo, non si tratta di provvedimenti a costo zero ma, in Italia, si stringe la cinghia solo quando servirebbe davvero investire mentre poi vengono elargiti con una certa disinvoltura bonus e sussidi a pioggia che aggravano il debito pubblico e non sortiscono effetti significativi sulla occupazione giovanile.

Perciò, è più semplice accusare la società corrotta e corruttrice che guardare in faccia alla realtà. Inoltre, è evidente che scaricare le colpe sulle collettività ha come effetto quello di alleggerire la posizione di chi si macchia di crimini così gravi. Se il contesto è malato, prima inghiotte e poi sputa le sue creature, allora anche il carnefice diventa in qualche modo vittima.

Il “siamo tutti colpevoli” non potrà né restituire una coscienza civile a chi ne è sprovvisto, né dovrà sottrarla a chi prova faticosamente a coltivarla nel quotidiano. Né può rappresentare un alibi o uno strumento di autoassoluzione per le responsabilità di tipo politico che non riguardano naturalmente il fatto in sé ma il completo abbandono delle periferie, la divaricazione tra le cosiddette Ztl e i margini delle città, come mostra anche il pestaggio del Quarticciolo, a Roma.

Il fallimento degli amministratori, sotto questo aspetto, è lampante e accomuna le maggiori metropoli italiane. Tanto è vero che le situazioni di degrado si verificano sempre con maggiore frequenza pure in centro. Non a caso, il delitto del giovane Giovanbattista è stato commesso nella centralissima piazza Municipio, a pochi passi dalla sede del Comune di Napoli.

Il prezzo delle chiusure

Pur restando nel perimetro del colpevolismo collettivo, Sandro Ruotolo ha riconosciuto sul Corriere del Mezzogiorno che, nella città che definisce la più progressista d’Italia, nonché nella Regione del centrosinistra, “c’è bisogno enorme di classe dirigente all’altezza della drammatica situazione”. Nell’ambito di questa pesante critica al suo schieramento, Ruotolo ha, inoltre, parlato di “povertà culturale” e “povertà educativa”. Ha omesso, tuttavia, di ricordare che, nel territorio a maggioranza progressista, nel periodo pandemico a pagare il prezzo delle chiusure – spesso ingiustificate – sono stati proprio gli istituti scolastici e di formazione. Allora, la Dad era ritenuta lo strumento salvifico. Altri, più ragionevolmente, ritengono che abbia favorito la dispersione scolastica laddove era già molto alta.

Il decreto “Caivano”

È pur vero che, se da un lato si eccede con l’enfasi, dall’altro c’è la tentazione a ricorrere al solito modello emergenziale che, molto spesso, contiene elementi illiberali. Dal decreto, appena emanato dal governo, per contrastare la criminalità giovanile sono state espunte alcune delle misure che sono immediatamente apparse discutibili e pure difficilmente attuabili.

Resta, però, il dubbio sull’impostazione di fondo. Non sarebbe preferibile affrontare la questione giustizia in maniera organica, magari incoraggiando il ministro Carlo Nordio a portare avanti le riforme annunciate all’atto del suo insediamento? La sensazione è che si stia sprecando l’ennesima occasione per rendere più equo, giusto ed efficace il sistema penale.

Riforma della giustizia su un binario morto

La soluzione non è aggiungere nuove norme incriminatrici a un sistema penale già ingolfato. Sarebbe più ragionevole assegnare un canale privilegiato ai reati di maggior allarme sociale e depenalizzare tutti quegli illeciti che possono trovare una loro composizione in sede amministrativa o civile. Si tratterebbe di agire su due fronti: rendere l’azione penale facoltativa e sforbiciare codici e leggi speciali.

Si otterrebbe il doppio risultato di rendere più snello l’ordinamento, più veloci i meccanismi di indagine muovendosi con spirito garantista e senza penalizzare le vittime dei reati. Ci sarebbero i presupposti per una vera rivoluzione copernicana che trovi il giusto bilanciamento tra le esigenze di protezione dei cittadini e la tutela dei diritti degli indagati/imputati.

Facile a scriversi, meno facile a tramutarsi in realtà visto e considerato che, per le forti resistenze incontrate, la riforma della giustizia sembra finita su un binario morto.

Perciò, prevale l’estemporaneo schema law and order che moltiplica i castighi ma, molto spesso, non riesce a fronteggiare i delitti. Così, più che essere colpevoli, gli sventurati cittadini sono doppiamente vittime: sia degli atti delinquenziali che delle esitazioni politiche. Oltre che della superficiale sociologia a testate unificate. Ovvero della banalità del buonismo.

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