Politica

La deriva elitaria che minaccia l’Europa continentale

Non solo a Bruxelles, anche a livello di stati nazionali le procedure democratiche stanno pericolosamente perdendo importanza e funzionari non eletti si arrogano il diritto di sostituirsi ad esse

Macron Ursula © Ramberg tramite Canva.com

Tra le molte cose dette e scritte sul Manifesto di Ventotene, vorrei partire una affermazione più volte ripetuta per ribattere alle critiche rivolte al suo contenuto: “Si deve tenere conto del contesto storico”, poiché proprio questo contesto merita qualche riflessione.

Visione elitaria

Quando il Manifesto fu scritto, nel 1941, tutta l’Europa continentale “dall’Atlantico agli Urali” (con l’eccezione della Svizzera) era soggetta a feroci dittature, molto simili tra loro nei programmi concreti, nonostante la contrapposizione violenta tra totalitarismo di destra e di sinistra. Tra le cose che queste dittature avevano in comune forse la più importante era la visione elitaria del potere.

La concezione secondo la quale un gruppo di persone (politici, funzionari amministrativi e giudiziari, intellettuali, gestori delle grandi imprese economiche e finanziarie), che insieme compongono l’intellighenzia, conoscono la realtà sociale e politica meglio del resto della popolazione, del cui consenso, da esprimersi tramite il procedimento elettorale, possono in molti casi fare a meno, ad esempio al fine della realizzazione “rivoluzionaria” di una società più o meno “ideale”, come scritto anche nel Manifesto da cui abbiamo preso le mosse. Dato che questo era il contesto nell’Europa del 1941, la prima cosa che è opportuno chiederci è quali fossero le cause di lungo periodo di tale modo di considerare la politica e più in generale la società.

Il potere medievale

Il potere politico medievale nell’Europa occidentale non era un potere democratico, perché era inserito in una struttura giuridica e sociale impostata su più livelli separati (le comunità contadine, il signore feudale, il sovrano ecc.) e suddivisa in più settori a loro volta autonomi o legati più o meno direttamente al sovrano (le strutture ecclesiastiche, le corporazioni cittadine riunite nei “comuni”), ma era tuttavia un potere rappresentativo, nel senso che chi esercitava funzioni pubbliche a qualunque livello, lo faceva (almeno nelle questioni più importanti) seguendo le indicazioni dei suoi sottoposti, che si esprimevano in concreto tramite il consenso al prelievo dei fondi necessari per lo svolgimento delle attività di interesse collettivo.

Ovviamente molti livelli di rappresentatività non facevano una democrazia, dato che i diversi “ordini” non erano comunicanti dal punto di vista politico e si unificavano tra loro solo nel sovrano, che iniziava a concentrare in sé lo “stato” del Paese, il che portò, insieme al cambiamento di significato della parola, alla nascita dello “Stato” in senso moderno.

Le monarchie assolute

A partire soprattutto nel XVII secolo però prese forma una grande divisione, favorita e provocata dalle guerre di religione. Nell’Europa continentale, il conflitto tra cattolici e protestanti “istituzionali” (prevalentemente luterani) legati al ruolo fondamentale dell’autorità civile, portò alla nascita delle monarchie assolute, e portò alla fine non solo della struttura a nido d’ape della società medievale, ma anche del potere rappresentativo.

Il re, “unto” dalla grazia divina era considerato non più un rappresentante dei sottoposti, ma un fiduciario, e al tempo stesso un tutore del popolo tutto, la cui fede nel sovrano e nelle sue capacità di fare il bene dei sudditi era parte della fede religiosa: si ricordi il principio “cuius regio eius religio”, secondo cui il popolo doveva condividere la confessione del monarca.

Élites fiduciarie

Con le rivoluzioni democratiche, in maniera radicale (Francia) o graduale (Germania), fu modificato il modo di nomina dei governanti, che vennero eletti del popolo (prima a suffragio ristretto poi universale), ma non venne mai del tutto meno la visione del detentore del potere e delle élites di governo come fiduciari e “tutori” del bene pubblico, legittimati a calare dall’alto le loro decisioni, salva al più l’approvazione successiva dell’elettorato.

Le crisi sociali ed economiche degli anni 30 dello scorso secolo e poi la guerra fecero crollare in tutta l’Europa continentale le procedure democratiche di nomina e di verifica delle scelte dei titolari del potere, procedure ritenute superflue (“ludi cartacei” come le definì Mussolini) nei momenti di difficoltà, nei quali il popolo doveva affidarsi alle persone capaci di guidarlo verso lo stato ideale e perfetto tramite la proprie superiori competenze in nome del bene della “nazione” o dei valori della “rivoluzione”, due percorsi totalitari che finirono per coincidere, come già qualche decennio fa capì molto lucidamente lo studioso israeliano Jacob Talmon (1916 – 1980) nel suo libro purtroppo non tradotto in italiano “Myth of the nation and vision of revolution”.

Le democrazie anglosassoni

Il potere rappresentativo medievale si mantenne invece in Gran Bretagna, grazie al (sia pur limitato) pluralismo religioso che accanto alla chiesa anglicana vide lo sviluppo di una pluralità di chiese protestanti “radicali”, basate cioè su un individualismo democratico che faceva partire il potere “dal basso” (tipico della cultura impropriamente detta “calvinista”).

Di conseguenza la visione dei governanti come rappresentanti, come delegati dei governati si sposò alla democratizzazione graduale (anche qui prima a suffragio ristretto e poi universale) trovando la sua piena espressione negli Stati Uniti d’America, che raccolsero e perfezionarono l’eredità britannica.

Nei Paesi anglosassoni il metodo democratico-elettorale non venne meno perché esso non era una pura forma di scelta dei governanti, ma era espressione di un contenuto che vincolava questi ultimi. Ovviamente il rapporto tra governanti e governati anche in questi stati non fu sempre idilliaco o corretto, ma anche se spesso distorto e finalizzato a interessi particolari, esso rimase fedele al concetto medievale di potere “rappresentativo” e lo declinò in senso democratico moderno: di conseguenza le democrazie anglosassoni, le uniche vere democrazie “rappresentative”, non degenerarono in dittature totalitarie.

Dal 1941 è cambiato molto: anche i Paesi europei continentali, dopo gli orrori della guerra, si sono di nuovo democratizzati, dotandosi di costituzioni in gran parte ispirate al modello americano e talora ritenute addirittura migliorative dello stesso. Le eredità culturali però sono spesso molto difficili da superare: per molti aspetti infatti la visione dei membri delle élites di potere come “fiduciari” eletti della popolazione (e non come delegati rappresentanti della volontà della stessa) è rimasta alla base, in maniera implicita, delle democrazie europee continentali.

I sistemi elettorali

Gli strumenti che hanno consentito il permanere di questo ruolo “sovraordinato” delle élites di governo, legittimate dal voto popolare ma non completamente vincolate da tale voto, sono state delle procedure tecnico-giuridiche, su cui spesso di arrovellano gli studiosi di diritto costituzionale, cioè i sistemi elettorali.

Mentre negli ordinamenti anglosassoni i sistemi maggioritari a turno unico hanno portato sempre alla formazione di governi rispondenti ai candidati proposti all’elettorato e legati a programmi di governo sufficientemente predefiniti, nei sistemi europei continentali (si pensi ai maggiori Paesi: Germania, Francia, Spagna e ovviamente Italia) i sistemi proporzionali hanno sempre portato alla formazione di governi di coalizione (in Francia il sistema a doppio turno ha portato alla formazione di una sorta di “coalizioni anticipate implicite” già in sede di elezioni) ponendo un filtro tra la concreta volontà degli elettori e le effettive scelte dei politici.

Peraltro, in questa fase l’integrazione europea, rivolta in modo pragmatico alle realizzazione di un mercato comune diretto ad agevolare gli scambi non solo commerciali tra i diversi Paesi, ha favorito lo sviluppo di una democrazia più consapevole del ruolo delle diversità.

Un’idea pericolosa

La situazione è però cambiata con la fine della Guerra Fredda, dove è ricomparsa una idea molto pericolosa, che già negli anni Trenta fece appassionare ed inorgoglire le élites di governo e finì per essere calata dall’alto sulla popolazione, una nuova forma di ideologia diretta a realizzare la società perfetta, questa volta incarnata dell’ideale astratto dell’unità europea.

In tal modo (talora contro le intenzioni dei singoli) ha ripreso piede la convinzione da parte delle élites europee continentali di disporre di una conoscenza superiore della realtà politica e sociale, non troppo diversa da quella dei sovrani “unti” dalla grazia divina, destinata a realizzare il mondo ideale nell’ambito del Vecchio Continente politicamente unificato.

Dal canto suo, la cultura woke ha rafforzato nelle élites il senso di superiorità e di “missione” finalizzata a realizzare il bene del popolo suo malgrado, cosa che unita al declino dei valori condivisi (la tradizione ebraico cristiana, contestata apertamente dalla nuova intellighenzia e non troppo difesa nemmeno dagli stessi leader religiosi) e alla conseguente crisi economica (chi scrive pensa il primo sia una delle più importanti cause della seconda) ha portato ad un rafforzamento della concezione “dall’alto” della democrazia che si è descritta, mai venuta meno del tutto.

Di conseguenza non solo a livello di Unione europea, ma anche a livello dei singoli stati nazionali le procedure democratiche stanno pericolosamente perdendo importanza e sempre più i funzionari non eletti si arrogano il diritto di sostituirsi ad esse: gli interventi dei giudici nelle scelte politiche in Romania e, in modo diverso, in Francia, o quelli dei tecnici capaci di condizionare le decisioni di politica economica dei governi nazionali sono segnali pericolosi di quella che mio parere è una deriva elitaria che minaccia l’Europa continentale.

La guida tedesca

In particolare per l’Unione europea si aggiunge un’altra forma di potere elitario, quella degli stati: con tutto il rispetto per i sostenitori più o meno fervidi degli “Stati Uniti d’Europa”, nell’Unione europea esistono stati di primo, secondo e terzo livello (altrimenti che senso avrebbe parlare di Unione “a due o a tre velocità”?).

Molti che ora si stracciano le vesti per i dazi americani per anni hanno accettato ed anzi hanno spesso apertamente lodato la guida tedesca (economica e politica) dell’Unione: si pensi alla definizione, non troppo lontana dalla realtà, di Angela Merkel come “Cancelliere d’Europa”.

Una guida tedesca che ha penalizzato in maniera pesante, grazie ai vantaggi di una minore inflazione, non bilanciabile con una svalutazione monetaria, la nostra economia basata sulle esportazioni portando ad un recessione “epocale”, forse la peggiore dal boom economico degli anni ’50 e ’60, per il nostro Paese: a questo proposito ricordo ancora una volta il libro, profondo nelle sue conclusioni e documentato nelle sue argomentazioni “La tragedia dell’euro”, dell’economista indiano naturalizzato americano Ashoka Mody.

Democrazie sotto tutela

Pertanto, fermo ovviamente il rispetto per le idee degli autori del Manifesto di Ventotene e la stima per le loro scelte di opporsi alla dittatura fascista, personalmente ritengo che la più duratura eredità di quegli anni tristi è rappresentata da un “contesto” culturale tipico dell’Europa continentale nel quale tutt’oggi prevale la concezione elitaria “fiduciaria” (e non “rappresentativa”) della democrazia, e questo costituisce un pericolo concreto per l’evoluzione sociale e politica dei Paesi del Vecchio Continente, compreso il nostro.

La prospettiva potrebbe essere quella di una democrazia di tipo “iraniano” in versione laica, dove gli esperti (economisti/tecnici, giuristi/giudici ecc.), mettano sotto tutela i rappresentanti eletti dal popolo, riservandosi il potere di approvarne e di dirigerne le decisioni: una prospettiva che chi crede nella democrazia “rappresentativa”, anche quando il voto popolare è contrario alle proprie convinzioni, e non ha “paura dell’elettorato” (per riprendere l’espressione del vicepresidente americano J.D. Vance contenuta nel discorso di Monaco dello scorso febbraio) non può che disapprovare.

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