È arrivata al capolinea l’esperienza di Boris Johnson alla guida del Regno Unito. Sul piano strettamente politico non c’è da rallegrarsene. Si è trattato di un un ottimo premier e non sarebbe stato male se ci fossero state le condizioni perché potesse restare a Downing Street per un periodo lungo.
Tra Brexit, pandemia e guerra
È riuscito a condurre in porto la Brexit, ha gestito con ragionevolezza e moderazione la fase della pandemia, comprendendo prima di altri che era possibile e doveroso un ritorno alla normalità, ha preso una posizione netta e di principio sulla guerra in Ucraina.
È riuscito ad ampliare la base sociale potenziale del Partito Conservatore e ha rappresentato coerentemente l’immagine di un conservatorismo moderno in grado di coniugare le ragioni dell’economia con il sentimento della popolazione e, in definitiva, globalizzazione e identità nazionale.
Tra Brexit, pandemia e guerra, si è trovato a governare probabilmente il periodo più delicato e complesso della storia recente del Regno Unito e ha saputo far sì che il Paese ne uscisse in modo non particolarmente accidentato e sicuramente con prospettive di competitività migliori rispetto a molti altri.
È stato, probabilmente, alla pari con David Cameron, il miglior statista europeo del ventunesimo secolo.
Detto questo, sarebbe sbagliato – e forse troppo figlio di una lettura “all’italiana” – ritenere che la decisione dei Conservatori britannici di forzarne l’abbandono sia una sorta di suicidio del partito.
Malati di “leaderismo”
Se il sistema politico britannico e il Partito Conservatore continuano a produrre leader di livello, infatti, è proprio perché non sono affetti dal “leaderismo”, cioè dalla tendenza italiana a compiacere e difendere il capo ad ogni costo e qualsiasi cosa faccia.
È proprio mantenendo l’asticella alta – accountability del leader e forte competizione interna – che i Tories hanno generato le Thatcher, i Cameron e i Johnson e possono continuare anche in futuro a produrre guide politiche di simile levatura.
È uno scenario totalmente diverso rispetto a quello al quale siamo abituati nel centrodestra italiano, con partiti dove le cariche sono attribuite in maniera cesaristica e dove l’unica competizione finisce per essere quella per ingraziarsi il capo.
È chiaro che, al contrario del Regno Unito, in Italia un leader non può cadere per uno scandalo, perché l’intera classe dirigente ne è emanazione e sa che con lui cadrebbe, in gran parte, l’intero castello.
In maniera analoga, gli elettori sono indotti a credere che la difesa del leader rappresenti l’ultima trincea contro il nemico, in un eterno clima di “après-moi, le déluge”.
Il vero problema è che, quando si entra nella dinamica di dipendenza dal capo, non ci sono limiti al progressivo abbassamento degli standard che si è disposti ad accettare, sia in termini di rispetto dei programmi e degli impegni che di decoro politico.
È così che anche avventure politiche nate con una certa nobiltà si riducono nel tempo ad esiti persino macchiettistici, come ben dimostra la parabola del berlusconismo.
La storia più grande dei singoli
Il Partito Conservatore britannico, al contrario di Forza Italia, non è un “partito biografico”. Rappresenta una tradizione e una storia politica lunghissime che trascendono le singole personalità che ne diventano interpreti per un periodo limitato.
Chi milita in in tale partito, quindi, sa bene che ad essere in ballo è una storia molto più grande di quello che può essere rappresentato da un singolo politico; per questo non ci sono esitazioni a mettere in discussione o anche a portare alle dimissioni un leader che a un certo punto ha inciampato o ha perso smalto.
Nel caso di Boris Johnson era ormai conclamato che, per quanti possano essere i suoi meriti, si era creata una situazione di fatto per cui non godeva più di un sostegno sufficiente tra i parlamentari e tra gli elettori.
Su 7 premier sostituiti, 6 vittorie elettorali
Va anche detto che, lungi dall’essere espressione di una debolezza in prospettiva elettorale, la sostituzione di un leader “appannato” – anche quando sia il premier in carica – è spesso la chiave per vincere le elezioni.
Prima della caduta di Boris Johnson, i Conservatori nel Dopoguerra hanno già rimpiazzato sette volte un primo ministro in carica. Churchill con Eden, Eden con MacMillan, MacMillan con Douglas-Home, la Thatcher con Major, Cameron con la May, la May con Johnson. Ebbene su sette volte, in ben sei occasioni hanno vinto le elezioni successive – l’unica eccezione fu la sconfitta di Alec Douglas-Home nel 1964.
Naturalmente è del tutto possibile che i Tories possano perdere le prossime elezioni. Dopo quattro vittorie di fila può essere nell’ordine naturale delle cose. Ma se avverrà sarà per la normale evoluzione delle dinamiche politiche, non perché hanno sostituito Johnson.
Peraltro basta guardare qual è il curriculum politico e la formazione culturale dei candidati in corsa per la successione di Johnson per comprendere che, mal che vada, comunque si cade in piedi. E se va bene, potrebbero persino emergere le condizioni per un riorientamento in senso thatcheriano della linea del governo.
In ogni caso la qualità dei contenuti espressi dai vari candidati è da leccarsi i baffi, rispetto a qualsiasi cosa sentiamo in Italia di questi tempi.