La nuova Giustizia violenta: ideologia o perversione culturale?

La china scivolosa della giustizia italiana: il principio illuminista della giustizia “non violenta” e volta al “recupero” ribaltato contro chi il crimine lo subisce

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Le sempre più numerose vicende giudiziarie riguardanti aggressioni ai cittadini, furti, stupri e rapine, hanno fatto emergere un quadro inquietante sotto il capitolo “giustizia”, che con relative sentenze draconiane nei confronti degli aggrediti, genera sconcerto e dovrebbe indurre ad una riflessione più che impellente.

Alcuni aspetti riguardano una visione sociologica della giustizia, altri filosofica. Qualcuno potrebbe obiettare che è eccessivo scomodare la filosofia, ma questa sarebbe un’osservazione fallace, in quanto il diritto, e quindi la giustizia, non possono prescindere da quest’ultima, esattamente come la intendeva Platone: “chi vuol essere retore deve sapere cos’è il giusto e cosa l’ingiusto; e chi conosce la giustizia è giusto, e fa cose giuste”. Proprio su questo “essere giusto” la china scivolosa che ha intrapreso la giustizia italiana è motivo di perplessità e sconcerto.

In passato il dibattito sulle forme della giustizia è spesso stato al centro delle dissertazioni filosofiche e politiche, proprio in considerazione delle ricadute pratiche che questa ha sempre avuto sulla vita dei cittadini.

Lo scandalo intellettuale

Con l’avvento della modernità, il filosofo francese Paul Ricoeur, nel suo saggio “Prima della Giustizia non violenta, la Giustizia violenta”, ne ha evidenziato l’aspetto più significativo, ovvero i concetti di “vendetta” e “amnistia”, notando come il diritto penale, pur rappresentando una delle più grandi conquiste della razionalità, nella pratica quotidiana dello svolgimento della giustizia consegnasse le transazioni sociali alla violenza.

Tralasciando in questo modo i progressi del diritto romano, canonico, fino al codice napoleonico esteso dal civile al penale, per evidenziarne la grandezza della razionalità nella giustizia penale, prima che cadesse nell’impotenza giustificando la pena. La vendetta come concetto era considerato da Ricoeur il grande rimosso della cultura giuridica, dove la vendetta funziona come una transazione tra un offeso e un offensore che si percepiscono come parti di uno scambio di un misfatto contro un misfatto.

Quello che Ricoeur definiva “Skandalon” (scandalo intellettuale), quella pena che va ad aggiungere sofferenza alla sofferenza del torto fatto da altri. In tal senso la legge considera il torto fatto alla vittima esclusivamente come “infrazione alla regola” e il delitto dell’accusato come “offesa alla legge”. Questo è lo scandalo intellettuale, quello contro cui si ha un inciampo della ragione, il fatto che le transazioni sociali vengano consegnate alla violenza.

L’ordine giuridico può essere collocato in una fondamentale sostituzione: quella del trattamento dei conflitti da parte del diritto, privata della violenza istituzionale; e qui Ricoeur si riferisce allo Stato detentore della violenza legittima attraverso leggi scritte ed esercizio della giustizia ad opera dei magistrati. Il processo dovrebbe, per essere giusto ed equo, presentarsi in forma di dibattimento destinato a mettere in chiaro il termine di uno stato, dove il querelante è la vittima, e l’aggressore il colpevole.

È necessario però considerare che questi ragionamenti si collocavano in un periodo detto secolo dei lumi, dove la transizione dalla giustizia dura del passato alla modernità (si pensi che in Francia, Paese in cui Ricoeur viveva, la pena di morte è stata abolita nel 1981), comprendeva quello che Kant definì, nella “Dottrina del diritto”, come connessione fra diritto e costrizione che impedisce un ostacolo messo alla libertà.

Il rigorismo kantiano indica la punizione come un “omaggio reso alla libertà dell’essere morale” rispetto al crimine come realtà oggettiva. Kant evoca il “principio di uguaglianza” tra la gravità dell’infrazione e la pesantezza della pena, riconoscendo in tal modo la cosiddetta “legge del taglione”.

Paradigma ribaltato

È chiaro che questo paradigma, che aveva lo scopo di emancipare la giustizia dalle sue forme violente del passato, intendendo secondo gli illuministi giusto e buono aspirare ad una qualche forma di “recupero” di chi commette un crimine, è stato oggi ribaltato contro chi il crimine lo subisce.

Spesso si sente dire che le posizioni di certa magistratura potrebbero essere di carattere ideologico, ma il rischio è che questa sia solo la punta dell’iceberg, sotto la quale potrebbe celarsi una perversione culturale di chi – secondo la definizione di Max Weber ha il monopolio della violenza legittima – dovrebbe garantire la tutela prioritaria dell’aggredito.

Questo è l’apice della contraddizione di uno stato di povertà intellettuale, dove la legge non punendo il colpevole ma la vittima, incita alla trasgressione che a sua volta scatena il meccanismo della sofferenza inflitta attraverso il diritto.

Gli scenari che si potrebbero prefigurare in conseguenza a tale visione della giustizia sono certamente preoccupanti e non certo orientati a mantenere un equilibrio tra le parti sociali. È ragionevole sostenere che la giustizia abbia subito una torsione negativa, e che il suo volto violento del passato stia ritornando in auge, rimettendo l’accento su quegli argomenti ipocriti relativi al crimine, che Kant ed Hegel scartavano quali argomenti parassitari, sia nel caso di riparazioni dovute alla vittima che di difesa dell’ordine pubblico.

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