Dei rischi che corre la nostra libertà individuale da uno stato d’eccezione permanente si occupa un libro uscito di recente, “La tirannia dell’emergenza” (Liberilibri). Ne abbiamo parlato con l’autore, Andrea Venanzoni, giurista e saggista.
Emergenza strutturale
TOMMASO ALESSANDRO DE FILIPPO: Perché questo libro, “La tirannia dell’emergenza”?
ANDREA VENANZONI: Il libro origina da una constatazione in apparenza banale ma su cui mi sembra si sia sedimentato un eccessivo pudore da parte di scienziati sociali, politici, opinionisti: ovvero che l’emergenza, nel suo senso più generale, sia divenuta una caratterizzazione strutturale delle società occidentali, un dato irrinunciabile che da un lato, stabilizzandosi, ha modificato radicalmente la stessa forma di governo e dall’altro lato ha imposto una sorta di incantesimo, una psicosi collettiva connessa alla paura generalizzata.
L’emergenza si rende tiranna ogni volta che polarizza e mobilita l’opinione pubblica, radicalizzando la propria funzione di vettore della paura stessa, utilizzata per azzerare le opinioni dissonanti e per irreggimentare il senso comune e la cittadinanza. È tiranna quando non accetta di essere discussa, analizzata, posta sotto la luce critica dei riflettori. È tiranna come ogni dogma che non può tollerare spunti alternativi.
Nel volume ripercorro il processo di stratificazione quasi geologica delle varie emergenze che non solo si sono susseguite nel corso degli anni ma che hanno lasciato le proprie metastasi a mettere radici nei dispositivi di produzione della cultura e nel ventre dell’ordinamento giuridico: il terrorismo politico degli anni settanta e ottanta, quello di matrice jihadista degli anni novanta e duemila, i vari panici sanitari (l’Aids, l’aviaria, da ultimo la pandemia da coronavirus), e il catastrofismo climatico.
Forma di governo
La tassonomia dell’emergenza ci consente di rilevare da un lato come al netto di alcune differenze e di alcune specificità, ogni emergenza imponga la sua agenda, i suoi strumenti di contrasto, di collettivizzazione, di privazione e limitazione della libertà, di mobilitazione totale, e dall’altro lato di poter asserire che l’emergenza stessa, nel suo tratto comune e caratterizzante, si è fatta forma di governo.
Mi piace sempre ricordare che nel corso degli anni, se rimaniamo nell’alveo dell’analisi giuridica, quello strano strumento che è il decreto-legge, legittimato a Costituzione vigente solo da “casi straordinari di necessità e di urgenza”, è divenuto nei fatti uno strumento ordinario di produzione legislativa: questo ha importato non solo una stabilizzazione di uno strumento limite ed emergenziale ma anche, in maniera più preoccupante, lo slittamento del processo legislativo dal Parlamento al governo.
L’abuso del decreto-legge, stigmatizzato da dottrina giuridica e giurisprudenza della Corte costituzionale, è un indicatore privilegiato di come stabilizzare gli strumenti dell’emergenza incida radicalmente e drasticamente sugli assetti istituzionali; d’altronde, il decreto-legge, in regime di Statuto albertino, si prestò alla torsione autoritaria del regime fascista, ragion per cui i Costituenti furono molto indecisi se inserirlo nella nuova Carta costituzionale ed è anche uno dei motivi per cui non venne mai costituzionalizzato un diritto di governo dell’emergenza.
Pandemia e agenda green
Durante la pandemia abbiamo assistito a un processo ancora più drastico e preoccupante: la iper-verticalizzazione del processo di produzione normativa in capo alla sola figura del presidente del Consiglio, in combinato con il ministro della salute, mediante lo strumento amministrativo del Dpcm (il cui cappello di legittimazione dovevano essere i decreti-legge, molto spesso materia inerte e muta nei presupposti fondanti, demandando quasi come una cambiale in bianco tutto ai vari Dpcm).
E abbiamo assistito alla proliferazione di corpi tecnici, del tutto scissi dal circuito di legittimazione sovrana, e che però lungi dal rappresentare solo dei meri strumenti consulenziali nei fatti dettavano l’agenda politica e legislativa e amministrativa, limitando così sempre di più la libertà e le garanzie dei cittadini.
Lo stesso avviene nella irreggimentazione del costume, delle scelte, dell’esistenza imposta dalla agenda green e dalla psicosi climatica, per cui veniamo sottoposti a uno stillicidio di terrore la cui funzione è quella di farci ingoiare il boccone amaro della privazione della autodeterminazione individuale.
In città con servizi di trasporto pubblico allo sbando, vengono imposte barriere e limitazioni come le Ztl che costringono nei fatti ad acquistare costosissime autovetture ecologiche, del tutto fuori dalla portata economica del pendolare medio. Non è difficile immaginare poi come questi strumenti porteranno ad una desertificazione del tessuto economico, commerciale e produttivo, con attività commerciali spazzate via.
Il paradosso dell’emergenza, di ogni emergenza, ed è questo un altro tema portante del volume, è che essa, in apparenza, cerca di salvare l’essere umano ma in maniera talmente tirannica e brutale da asfissiarlo. E ciò volendo ammettere la buonafede del potere. Perché in altri casi invece le emergenze, come insegnava Hayek, sono soltanto dei pretesti per erodere la libertà.
La “Danza Macabra”
TADF: Nel suo testo analizza la funzione della “Danza Macabra”. A cosa si riferisce?
AV: La Danza Macabra medievale è stato tema iconografico che, fatta salva una breve parentesi storica, ha rappresentato uno strumento di moralizzazione dei costumi, una moralizzazione prettamente di matrice religiosa. Nel libro mi soffermo sulla rappresentazione della morte e del suo dilagare nel cuore dell’opinione pubblica in tempi emergenziali, utilizzata spesso proprio per mobilitare le coscienze e orientarle ad un certo elevato grado di sottomissione e di pronta obbedienza.
Dal “diritto della paura” di cui parla Sunstein alle magistrali riflessioni sulla malattia come metafora sociale di Susan Sontag, la danza macabra emergenziale assurge al ruolo di instrumentum regni.
Ad un livello decisamente più basso di questi autori citati, ma non meno incisivo e cristallino nelle sue intenzioni, l’ex ministro Roberto Speranza nel suo volume, come noto poi ritirato dal commercio, ha dedicato alcune illuminanti pagine al fenomeno della necessitata “cattura” della opinione pubblica al fine di generare un autentico mantra della nazione intera, chiamata a mobilitarsi contro il virus.
Il punto è che quando tu monopolizzi la produzione della cultura e delle opinioni, il dibattito stesso, facendo rifluire al silenzio tutte le opinioni e le opzioni dissonanti (ciò che Elisabeth Neulle-Neumann definiva “la spirale del silenzio”), proprio nel nome della paura (nel caso di specie, la paura della morte, risultante del dilagare della pandemia), puoi sperimentare la tentazione di usare questo immane potere per imporre una qualche egemonia politica, una qualche agenda istituzionale.
D’altronde, quando si è a rischio di morte, non si discute, non si dibatte, ci si rassegna ad obbedire. Nell’ordinamento romano, il dictator era un magistrato eletto proprio in situazioni emergenziali, e munito di poteri esorbitanti, per fronteggiare il rischio atroce della dissoluzione dell’ordinamento e la minaccia di distruzione e di morte.
Lo spettro della morte, questo incubo, per come viene presentato e “venduto”, è il miglior alleato della strutturazione di una società sempre meno libera. Prima ho parlato di psicosi climatica; già sentiamo parlare di eco-ansia, e le parole d’ordine utilizzate per imporre una certa agenda sono sempre tremende, orrorifiche, dalla casa in fiamme a un generalizzato “moriremo tutti”, che già aveva caratterizzato i due anni abbondanti di pandemia.
E chi può dimenticare la conta mortuaria serale, con gli alti burocrati sanitari che snocciolavano il rosario dei morti e dei contagiati, ogni singolo giorno?
Propensione a sottomettersi
TADF: Cosa ha spinto i cittadini ad accettare dure limitazioni della libertà nell’illusione di poter ottenere l’assoluta sicurezza? Forse perché ritengono che essa dipenda esclusivamente dallo Stato?
AV: Il cittadino, per il fatto stesso di essere cittadino, è già di suo propenso a limitare la propria libertà e a sottomettersi. E nel corso degli anni abbiamo assistito a un oggettivo scadimento del senso critico, del presidio della libertà, in realtà del riconoscere valore stesso alla libertà. Vivere necesse est, insegnano i giuristi. Tutto è sacrificabile se in gioco c’è la sopravvivenza.
Sulla base di questo assunto, lo Stato ha iniziato, già prima e fuori dal perimetro della emergenza, a sussidiare i cittadini, a renderli dipendenti dalla sua mano, a far loro credere che la sicurezza dipende soltanto dalla presenza dello Stato medesimo. Ne consegue che in stato emergenziale, di una vera emergenza o di una emergenza esagerata nei suoi lineamenti, gonfiata enfaticamente per divenire pretesto per un complessivo giro di vite contro la libertà, il cittadino si sottometterà del tutto, cessando qualunque forma di “resistenza” critica contro ciò che subisce.
Anzi, in alcuni casi si renderà volenteroso carnefice, mediante delazioni e segnalazioni varie, come quanto avvenuto in tempo di pandemia ci ha insegnato. Nel libro riprendo la grande lezione di de La Boètie, autore che soprattutto in tempi di emergenza dovrebbe essere tenuto a portata di mano e debitamente letto.
Il “bandito stanziale”
In quanto allo Stato, è davvero quel “bandito stanziale” di cui, pur nel generale quadro di polemica contro il pensiero anarco-libertario, parlava Mancur Olson: l’istituzione statale nasce in primo luogo nel ventre pulsante della ricerca di sicurezza, e da questo punto di vista basterebbe ripercorrere le illuminanti pagine sulla genesi del concetto di sovranità, da Jean Bodin a Thomas Hobbes. I cittadini, mediante la finzione del patto sociale, si spogliano della loro libertà e stanno in società organizzata, sotto il maglio dello Stato.
In questa misura l’accettazione del potere salvifico dello Stato è già professione di sottomissione. E la situazione in emergenza peggiora, perché lo Stato finirà con l’esigere un grado ben maggiore di sottomissione. Nei fatti, la protezione promessa dalla sfera pubblica sembra somigliare a un racket, e in questo senso trovano conferma le analisi radicalmente critiche di Rothbard e Hoppe.
Olson polemizzava con gli anarco-capitalisti, sostenendo che lo Stato bandito-stanziale avrebbe comunque prodotto qualcosa, oltre a depredare, mentre i banditi erranti avrebbero solo distrutto e saccheggiato. La funzione di protezione statale, in termini di sicurezza, avrebbe dovuto tenere lontani tutti gli altri banditi, lasciando il monopolio della forza in capo a un solo bandito, lo Stato.
Ma in questo caso, il bandito-stanziale, che opera in regime di monopolio, avrà gioco facile a vessare sempre di più i suoi sottoposti, e per paradosso un bandito errante potrebbe garantire condizioni di “sfruttamento” meno inumane. Proprio per evitare che qualche cittadino possa iniziare a coltivare l’idea di riprendersi la libertà e sottoporre a critica radicale il dogma chiamato Stato, ogni tanto giunge una emergenza funzionale ad azzerare le critiche e le strade organizzative alternative.
Per questo, il cittadino spesso non riesce nemmeno a immaginare che lo Stato possa danneggiarlo. E invece dovremmo sempre ragionare con spirito altamente, lucidamente critico. Non credo di esagerare nel ricordare e asserire che il governo della pandemia, a livello globale, è quanto di più prossimo alla tirannia l’Occidente abbia sperimentato dalla fine del secondo conflitto mondiale.
Siamo stati reclusi in casa, sorvegliati, controllati, si facevano le file davanti i supermercati, come in una replica strutturale della DDR, le forze di polizia sono state lanciate dietro runner e passeggiatori su spiagge solitarie, sono stati eretti meccanismi, come il Green Pass, incidenti su libertà costituzionalmente tutelate, siamo stati inondati da obblighi, alcuni dei quali implicavano addirittura se non ossequiati la perdita del posto di lavoro, divieti, limiti, barriere, graziose concessioni sovrane.
Un copione standard
TADF: Ritiene che le restrizioni imposte negli anni di pandemia possano tornare in vigore in caso di nuove emergenze?
AV: Per ironico paradosso, la Commissione europea e l’Oms hanno annunciato, con enfasi davvero degna di miglior causa, proprio nei giorni in cui il mio libro è uscito, che si sta lavorando a stabilizzare il Green Pass come strumento globale, per contrastare ipotetiche pandemie future.
Il copione è standard. Si immette nel circuito del dibattito e nell’ordinamento uno strumento gravemente limitativo della libertà, si dice che lo si sta facendo per il bene dei consociati e che comunque sarà uno strumento rigorosamente temporaneo, poi poco tempo dopo si finisce con lo stabilizzarlo.
La permanenza dell’emergenza e dei suoi strumenti di governo rappresenta la sostanza più pura, e preoccupante, dello stato presente. Del mondo in cui viviamo. Non dobbiamo mai dimenticare come, dagli anni settanta in poi, gran parte dei meccanismi, degli strumenti, degli istituti giuridici limitativi della libertà originati dal contrasto a una qualche emergenza siano rimasti, spesso inerti ma pronti ad essere adeguatamente ricontestualizzati e utilizzati di nuovo.
Non sono mai stati cancellati del tutto, espunti e buttati a mare. Ma anzi, spesso si ibridano tra di loro, finendo con il generare dispositivi mostruosi di annichilimento della libertà. Fino a qualche anno fa non avremmo mai potuto immaginare, nemmeno nei nostri peggiori incubi, che esseri umani, nel cuore dell’Occidente e di quelle che si rappresentavano come mature democrazie, avrebbero perso il posto di lavoro, e la fonte del loro sostentamento, perché si sono rifiutati, per motivazioni che non dovrebbero nemmeno interessarci visto che attengono alla sfera individuale, di vaccinarsi.
Alla luce di tutto questo, qualcuno potrebbe davvero escludere, escludere del tutto intendo, la nascita che so di un Green Pass climatico?
Salute e sicurezza
TADF: In che modo promuovere sicurezza e salute senza trascinare la società in un perenne stato d’eccezione?
AV: Viviamo in un Paese che ha criminalizzato e vilipeso in ogni modo possibile l’iniziativa privata. Ancora oggi sentiamo dire che il tracollo del nostro sistema è stato dettato dal neoliberismo, dalle privatizzazioni, una vulgata surreale considerando che viviamo in una roccaforte statalista e collettivista che non fa altro che redistribuire risorse, spesso per motivazioni neotribali di consolidamento del ceto politico.
Durante la pandemia, abbiamo sentito dire che il nostro sistema sanitario è collassato a causa della ingordigia dei privati e dei fenomeni di privatizzazione. Qualche politico lo ha pure scritto. Mi sembra notevole, perché ci dice chiaramente che nulla di buono può provenire dalla politica, se essa è arrivata a questo livello di inganno e di dissimulazione e di infingimento.
Bisognerebbe ricordare ad esempio che nei fatti la politica locale molto spesso ha ingenerato fenomeni di autentico corporativismo e clientelismo; basta scorrere le cronache giudiziarie per verificare come spesso questo fenomeno distorto arrivi fin nelle aule di giustizia, è in fondo un metodo di consolidamento elettorale e di potere del ceto politico.
Non si tratta di “privati” che gestiscono con logica concorrenziale e di mercato un dato sistema, sia esso quello della salute/sanità o altro, ma di società spesso legate a doppio filo alla politica, fino a determinare un processo osmotico da “capitalismo corporativo”, che si alimenta pure di quell’autentico socialismo municipale che passa attraverso le società (pubbliche) di gestione dei servizi.
Sulla sicurezza, funzione sovrana per eccellenza, il discorso è ancora più radicale. Lo Stato pretende il monopolio assoluto, qui non c’è nemmeno la giustificazione degli errori o della ingordigia dei privati. Se la sicurezza non funziona, lo Stato non può che prendersela con se stesso. Per questo in genere si è costruita la bizzarra categoria della “percezione della sicurezza”: vivi in una città che è un inferno, ma io elaboro delle statistiche che comunicano sicurezza, le faccio passare per giornali e tg, ti convinco di essere protetto e sicuro, anche se non lo sei per niente.
La soluzione non è “più Stato”
La soluzione non è, come invocano i politici, “più Stato”, e in genere sono quei politici per cui i servizi pubblici sarebbero “gratis”. La soluzione è “più individuo”. Voglio ricordare che noi già oggi, con la sanità pubblica al collasso, ricorriamo ad assicurazioni sanitarie private, ci rivolgiamo a studi medici specialistici privati. Nei fatti ci privatizziamo da soli la gestione della salute, con l’aggravante però di dover sussidiare un sistema, quello statale, mediante le tasse, sapendo che non lo utilizzeremo (quasi) mai.
E questo vale anche per la sicurezza. Funzione sovrana o meno, sempre più cittadini fanno ricorso a vigilanza privata, a case trasformate in bunker, o si armano, spendendo i loro soldi, ma continuando a pagare le tasse per finanziare servizi di pubblica sicurezza che ormai, specie nelle grandi città, garantiscono un livello di intervento sub-ottimale. Oppure peggio ancora, paghiamo le tasse per finanziare il servizio di chi è costretto a inseguire i runner…