Gli uomini invisibili che hanno incarnato il potere opaco delle “anticamere” sono i protagonisti di “Eminenze grigie. Uomini all’ombra del potere” (Liberilibri), l’ultimo libro di Lorenzo Castellani, saggista, editorialista e docente alla Luiss. Un galleria di ritratti di scienziati, diplomatici, mandarini, civil servant, tecnocrati, missionari laici e ideologi, da Surkov a Dick Cheney, da Zhou Enlai a Montagu Norman.
Protagonisti “indiretti”, come direbbe Carl Schmitt, che al confine tra tecnica e politica, consiglio e condizionamento, ideologia e prassi, hanno scritto in silenzio e nell’ombra la vera del storia del potere e dei poteri. Per conoscere le loro storie abbiamo intervistato l’autore.
Eminenze grigie
FRANCESCO SUBIACO: Perché “eminenze grigie”?
LORENZO CASTELLANI: Il termine “Eminenza Grigia” fu coniato per la prima volta durante gli anni del governo del cardinale Richelieu, per riferirsi al suo più stretto consigliere (così chiamato per il saio grigio che indossava): Frate Giuseppe. Un prelato di grande intelligenza e capacità, che fu il vero capo della diplomazia e dello spionaggio dello stato francese in quegli anni. Tale figura è il prototipo del “suggeritore”, del “consigliere”, di tutti quegli uomini all’ombra del potere che compongono la galleria di ritratti del mio libro.
FS: E chi sono gli “uomini all’ombra del potere”?
LC: Consiglieri, burocrati, banchieri, diplomatici, scienziati, santoni e spin doctor. Uomini che incarnano un potere opaco e silenzioso, non immediatamente visibile, ma non per questo meno cruciale. Il libro si occupa di questo potere invisibile, con un viaggio nella storia dei suoi protagonisti.
Lontani dai riflettori, misteriosi, riservati, questi personaggi si muovono con disinvoltura nei corridoi semibui dei palazzi e delle corti. Se i loro capi sono potenti, questi uomini sono influenti. E spesso le loro decisioni, i loro consigli, i loro calcoli sono stati più importanti per la storia di quelli delle grandi personalità che tutti conoscono. Questo libro raccoglie le loro storie e il loro ruolo invisibile, ma non assente.
Tra tecnocrazia e politica
FS: Scienziati, chierici, giuristi, tecnici, ma sicuramente esponenti di una dimensione tecnica strettamente collegata col mondo politico. Che relazione esiste nei vertici istituzionali tra tecnocrazia e potere politico?
LC: Per usare una frase di Raymond Aron, le democrazie sono dei regimi di esperti governati da un gruppo di dilettanti. Una definizione che in questa fase potrebbe valere anche per le autocrazie. Secondo questa formula la politica stabilisce gli obiettivi e i fini, ma la sua applicazione viene definita dalle tecnocrazie e dalle burocrazie. Una distinzione che nel mondo moderno tendenzialmente è molto sottile fino a decadere o a dissolversi.
Molte di queste figure non sono infatti dei meri esecutori, ma sono anche consiglieri, ideologi, spin doctor, uomini di fiducia dei leader con cui collaborano. Pensiamo a Keith Joseph o ad Alberto Beneduce. Essi operano sulla linea di confine tra tecnica e politica, ed oltre ad esaudire i desiderata dei loro leader di riferimento ne condizionano il pensiero e l’operato.
La loro legittimazione è fondata sia sulla loro competenza tecnica (diritto, economia comunicazione, scienza, ecc) sia su un legame fiduciario di tipo personale. Surkov, Beneduce, Retinger, Bormann, e altri protagonisti di questo libro sono il volto invisibile di un potere ibrido fra governo e management, burocrazia e politica, i cui confini sono spesso sfumati ed evanescenti.
L’anticamera e i segreti del potere
FS: ll testo in un certo senso è quasi una “fenomenologia dell’anticamera”. Ma quale è il ruolo di queste figure e il loro vero potere?
LC: L’anticamera è il luogo dove si prendono grandissima parte delle decisioni che regolano, influenzano e determinano la nostra vita sociale, politica e economica. Le decisioni di tipo monetario, economico e legislativo passano fondamentalmente sempre meno dai parlamenti, dai partiti, dagli organi politici e sempre più da un incrocio tra poteri pubblici e privati, burocrazie e tecnocrazie.
Il ruolo dell’anticamera è immenso e col tempo ha aumentato sempre di più il suo ruolo, la sua importanza e le sue competenze. Si pensi alla crescita dei gabinetti ministeriali in Italia durante la Prima Repubblica, all’evoluzione del mondo delle tecnocrazie post-golliste di cui Macron è la massima espressione, oppure alla centralità del preconsiglio dei ministri come vero luogo di realizzazione delle policies pubbliche figlie di una mediazione tra politica e burocrazia nei ministeri, che poi vengono sostanzialmente ratificate dalle Camere.
Tutti esempi di un potere cruciale, opaco, complesso, molto spesso occultato, anche dietro una facile retorica che poi nella realtà viene parzialmente disattesa. Noi, infatti, viviamo in un sistema oligarchico, che esiste anche in un regime democratico.
Crisi delle oligarchie
FS: Quale è il vero limite delle tecno-burocrazie?
LC: Il problema dell’anticamera (in senso lato) o in generale delle “oligarchie” sussiste quando esse perdono la propria legittimità. Ciò può accadere quando esse subiscono una crisi, o sono troppo autoreferenziali o se il loro ruolo è obsoleto o se perdono la propria connessione con il popolo. Il vero nodo quindi dell’anticamera è che ogni potere deve essere legittimato e che soprattutto serve un controllo sulle élites. Tale capacità di controllo o selezione è del resto il vero vantaggio delle democrazie.
FS: Si può prescindere dal ruolo delle oligarchie?
LC: Le democrazie non possono prescindere da delle oligarchie che anzi ne garantiscono la stabilità e sviluppo. Però tali oligarchie funzionano quando esse sono tenute insieme da valori comuni, sono legittimate dalla politica e quando sono percepite come gli esecutori del mandato popolare. Quando questi elementi (o almeno uno di essi) mancano c’è crisi e disgregazione.
Pensiamo alla crisi della Prima Repubblica dove abbiamo assistito ad una crisi dell’establishment che completamente delegittimato, poiché si era rotto il rapporto tra Paese reale e politica, ha visto la disgregazione del sistema oligarchico italiano incalzato dalla nuova politica e da quel contropotere che fu la magistratura. Senza coesione e la legittimazione questo sistema oligarchico democratico è in grande difficoltà.
L’Unione europea è un esempio ottimo nella sua coesione burocratica, ma spesso è debole per la sua precaria legittimazione politica, data dalla mancanza di integrazione politica.
Gli ultimi arcani del potere
FS: Nel libro dice “la banca centrale è l’ultimo arcano del potere”. Può spiegarsi meglio?
LC: Se pensiamo alla frase più importante della politica europea degli ultimi 15 anni certamente pensiamo a “what ever it takes” pronunciata da Mario Draghi. Questo mostra quanto le banche centrali abbiano una influenza economica e politica molto rilevante. Esse però non rispondono ai partiti o ai parlamenti ed anzi sono dotate di un forte culto della loro indipendenza.
Le banche centrali, pensiamo anche alla Bce, prendono decisioni politiche che non hanno un fondamento politico. Anzi sono più simili agli eserciti di un paio di secoli fa che a istituzioni politiche democratiche. La banca centrale non può essere controllata politicamente, soprattutto negli ultimi 40 anni, ma anzi è un “arcano” che prende decisioni politiche in seguito a logiche interne. Una decisione della Bce è ad esempio più forte di qualsiasi legge di bilancio di un grande Paese europeo…
Eminenze grigie al tempo della Meloni
FS: Molti quando parlano di Giorgia Meloni si chiedono cosa le manchi per diventare la Thatcher italiana. Vuoi la concorrenza, vuoi le liberalizzazioni, vuoi un collegamento con le migliori oligarchie. Potrebbe mancargli un “Keith Joseph” o quello che rappresentava?
LC: È sempre difficile fare paralleli storici tra due leader, paesi e due epoche così diversi. Certamente è evidente che Giorgia Meloni non abbia un programma di riforme così radicale come quello di Margaret Thatcher. Questo anche perché si muove in uno scenario con molti più vincoli esterni, pensiamo all’Unione europea.
Però bisogna fare pace con l’idea che in Italia (aldilà di numerosi pareri in senso contrario) non c’è una tradizione conservatrice e infatti la Meloni, nonostante alcuni tentativi, da quando è andata al governo ha abbandonato questa istanza. La mia impressione è che Meloni dovrebbe trovare, anche tramite figure oltre il suo partito, una apertura maggiore capace di pensare una formula originale italiana senza cercare di scimmiottare formule o americane o anglosassoni.
Però non vedo questa volontà, ma anzi vedo soprattutto una legittima prudenza nei propri rapporti internazionali e nella propria azione di governo. Per avere maggiore slancio, invece, bisognerebbe guardare altrove…
FS: Tornando all’opera possiamo notare che essa ha a livello di struttura linguistica quasi una impostazione alviana?
LC: Certamente, Geminello Alvi, tra i maggiori intellettuali italiani, ha mostrato che con poche parole e ottimi ritratti fondati sullo studio, sull’erudizione e su una visione ampia ed eclettica, si possono collegare dettagli rivelatori e concetti universali pur rimanendo aderenti alla realtà storica e alle fonti. Per tale motivazione nel libro, come ho scritto nell’introduzione, ho cercato di seguire questo tipo di formula.