Politica

Le eredità culturali della Controriforma che ancora pesano sul processo penale

Discrezionalità occulta, mancata separazione tra accusatori e giudici, irresponsabilità. La giustizia necessita di riforme culturali, prima ancora che giuridiche

Nordio Riforma giustizia © Zolnierek da Canva.com

Per parlare (anche solo a livello di poche riflessioni superficiali quali quelle contenute in questo scritto) del tema della riforma della giustizia penale – reso di attualità sia dalle proposte governative contestate da parte degli operatori del settore, sia da una serie di casi di applicazioni molto discutibili delle leggi in materia – si deve partire tenendo conto del fatto che la realtà attuale della giustizia penale italiana affonda le sue radici, come sempre accade in tutte le realtà sociali, in una serie di principi culturali che stanno alla base del modo in cui leggi e i codici sono da un lato scritti e dall’altro applicati.

Uno dei più importanti studiosi del processo dello scorso secolo, Salvatore Satta (1902-1975), la cui fama postuma di brillante romanziere non ha certo messo in ombra il suo valore di giurista, distingueva tra il “firmamento” dei principi che reggono il processo (o meglio il rapporto che intercorre tra i diversi soggetti in esso coinvolti, pubblici e privati) e le regole “di procedura” che dai primi derivano.

Eredità antiche

Molto più modestamente chi scrive pensa che tra i principi culturali che stanno alla base della giustizia penale italiana, accanto ad alcune concezioni moderne e tipiche di una democrazia occidentale, permangono alcune eredità antiche, derivanti dalla mentalità propria della controriforma, che tuttora caratterizzano la nostra giustizia e che, quando si uniscono a posizioni ideologiche, ieri quelle comuniste oggi quelle altrettanto estreme proprie della cultura woke, purtroppo presenti in molti operatori del settore, rendono molto debole il nostro sistema penale.

Sia dal punto di vista liberale, nel senso che i diritti del privato imputato o semplice indagato sono tutelati più per “concessione” delle autorità giudiziarie (accusatore e/o giudice) che non in base a norme e principi chiari; sia dal punto di vista democratico, nel senso che le stesse autorità giudiziarie nello svolgimento della loro attività non sono soggette (o lo sono in misura insufficiente) a quei controlli da parte degli altri soggetti pubblici facenti parte del governo e del parlamento che richiederebbero sia la separazione dei poteri dello stato che la legittimazione democratica che si incarna (piaccia o no a chi ritiene che solo la propria parte abbia ragione) nei rappresentanti eletti dal popolo, nel cui nome peraltro la giustizia penale viene amministrata (art. 101 della Costituzione).

Discrezionalità occulta

Il primo di questi antichi principi che ancora oggi guidano la giustizia penale italiana è quello secondo cui tutti gli atti dei funzionari pubblici in campo penale sono in modo o nell’altro formalmente “atti dovuti”, una realtà che nasconde, che “occulta” una situazione opposta, quella della più ampia discrezionalità di cui di fatto cui godono sia l’accusatore che il giudice in tutto l’ambito dell’attività penale, dalle indagini preliminari fino alla definizione della pena da applicare al condannato.

Le leggi italiane, vaghe, imprecise, interpretabili in modi diversi rendono possibili ad esempio la scelta discrezionale dei modi e dei tempi nei quali condurre le indagini preliminari al processo vero e proprio (a volte, ma questo sfiora la patologia del sistema, anche in assenza di una ipotesi di reato ben definita, ma in base a indizi e ai cosiddetti “teoremi accusatori”), ma di fronte alla affermazione che un atto è “dovuto” il cittadino coinvolto (e il suo difensore) non possono che abbozzare, mentre chi ha agito non è tenuto a giustificare la proprie decisioni.

Si tratta, se sono riuscito a esprimere il concetto, di un fatto culturale, prima che giuridico, che rende in sostanza insindacabili le scelte dei funzionari giudiziari, così come anticamente i funzionari ecclesiastici giustificavano ogni loro decisione tramite l’affermazione: “non possumus” fare diversamente.

Naturalmente questo principio culturale ha la sue ricadute a livello giuridico, in primo luogo nella regola che prevede l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 della Costituzione), cioè di dare inizio al giudizio vero e proprio, un principio presente quasi solo in Italia nell’ambito delle democrazie occidentali. Senza pensare ai sistemi anglosassoni che presentano un livello di garantismo penale molto più elevato di quelli europeo continentali, la scelta discrezionale spettante al pubblico ministero se esercitare o no l’azione penale (in base a direttive generali previste dal Governo) è ad esempio prevista in un sistema molto simile al nostro quale quello francese.

L’abolizione formale di questo obbligo molto probabilmente avrebbe l’effetto di fare chiarezza e di rendere “scoperte” e verificabili le scelte discrezionali delle autorità giudiziarie, portando ad una maggiore tutela dei privati coinvolti (imputati o solo indagati), soprattutto in presenza di criteri determinati a monte secondo i quali svolgere tutte le attività accusatorie di carattere penale.

Separazione tra accusatori e giudici

Un altro dei principi culturali che, a giudizio di chi scrive, condizionano in senso negativo il sistema italiano della giustizia penale è quello della mancata separazione piena tra accusatore e giudice: nonostante le importanti riforme in tal senso del codice di procedura penale del 1988, nel nostro Paese non si è ancora affermato il principio che il ruolo del pubblico ministero rientra a tutti gli effetti nel potere esecutivo e che è al potere esecutivo, ovviamente con tutte le garanzie di indipendenza che richiede una funzione tanto importante e delicata, che dovrebbe fare capo la direzione della sua azione (l’esempio francese valga ancora come testimonianza di tale impostazione).

Solo in tal modo, con una separazione non solo delle carriere, ma a monte dei ruoli e della posizione nel sistema dei poteri pubblici tra accusatore e giudice verrebbe a realizzarsi a pieno il principio secondo cui quest’ultimo deve essere “terzo”, equidistante tra accusa e difesa.

Una realtà che non è ancora stata attuata nel nostro Paese, anche in questo caso a causa di una eredità culturale lasciata dalla controriforma, quella del processo “inquisitorio” nel quale le funzioni di giudice e di accusatore, o venivano svolte dalla stessa persona oppure da due funzionari formalmente distinti, ma pur sempre culturalmente legati (al di là spesso delle migliori intenzioni) dal fatto di essere colleghi, e uniti dallo scopo comune delle ricerca della (spesso illusoria) verità processuale, come accadeva ad esempio anche nel processo di canonizzazione dei santi al defensor fidei e all’avvocato del diavolo, entrambi funzionari ecclesiastici contrapposti, ma uniti dallo scopo di verificare l’effettiva santità del candidato agli altari.

Ancora oggi molti (anche se non tutti) giudici penali non vedono il loro ruolo come quello di un arbitro tra accusa e difesa, come accade nel processo “accusatorio” di tipo anglosassone, dove la decisione finale spetta peraltro ad una giuria indipendente, ma come quello di un revisore che, pur tenendo conto delle osservazioni della difesa, si limita a controllare la legittimità dell’attività dell’accusa, una posizione culturale che finisce ovviamente per danneggiare i privati interessati la cui posizione finisce per essere messa per tanti aspetti in secondo piano dal punto di vista della tutela dei propri diritti.

Una separazione dei ruoli e della posizione nello stato tra giudice ed accusatore a mio parere darebbe una svolta in senso decisamente liberale alla giustizia penale, avvicinandola a quella tipica degli altri Paesi occidentali, tenendo conto che quando funzioni esecutive (quale è quella svolta dall’accusa) e giudiziarie sono troppo legate tra loro, c’è sempre il rischio che il potere si trasformi in un “oppressore” del cittadino, come afferma Montesquieu (“Lo spirito delle leggi”, libro XI, cap.6).

Indipendenza e irresponsabilità

Un terzo principio culturale tipico della giustizia penale italiana, che la rende poco democratica, è quello della chiusura alle influenze esterne del sistema giudiziario, un principio in astratto finalizzato a garantire quella che viene definita “l’indipendenza” dell’attività giudiziaria nel suo complesso, un principio nobile e che deve necessariamente far parte delle regole fondamentali di uno stato liberale, ma che se portato all’eccesso, come tutti i principi nobili finisce per trasformarsi in un disvalore.

E ciò accade quando l’indipendenza si avvicina pericolosamente alla insindacabilità, se non in alcuni casi addirittura alla irresponsabilità (alla non responsabilità) verso l’esterno. Proprio perché l’attività giudiziaria non è una meccanica applicazione delle leggi, ma è sempre, come si è cercato di spiegare sopra, in buona misura una attività discrezionale, le decisioni prese nell’ambito della giustizia penale dipendono inevitabilmente anche dalle opinioni e dalle visioni personali e quindi anche politiche (nel senso più ampio del termine) degli operatori.

Di conseguenza la politica formalmente cacciata dalla porta in nome dell’indipendenza della magistratura è di fatto rientrata dalla finestra attraverso le correnti interne che dominano nell’organo di autogoverno dei magistrati, il Consiglio superiore della magistratura.

Anche da questo punto di vista sarebbe importante una operazione di chiarezza: se una sorta di supervisione sulla gestione della giustizia penale è inevitabile (ad esempio nelle valutazioni che determinano incarichi e promozioni per i singoli operatori), sarebbe bene che questa non fosse interna all’apparato giudiziario.

È indubbiamente vero che per sua stessa natura il potere giudiziario deve avere l’ultima parola nella decisione dei casi singoli: saranno eventualmente le modifiche delle leggi o le sentenze successive a correggere gli errori di principio commessi in un caso o in una serie di casi in base ad un orientamento giuridico sbagliato.

Questo non toglie però che l’affidare, contrariamente a quanto attualmente previsto dalla nostra Costituzione (articoli 104-110), la valutazione dell’attività svolta dai magistrati, ovviamente in base a regole “separate” per pubblici ministeri (più legati alle direttive generali governative) e giudici (solo tenuti alla correttezza della loro attività, discutibile o meno nei suoi esiti) ad un organo composto dai rappresentanti del popolo democraticamente eletti, e non da operatori interni al sistema giudiziario, sarebbe un passo avanti innanzi tutto nella democratizzazione del sistema.

Ma sarebbe anche (mi permetto di dire) un miglioramento dal punto di vista dei singoli magistrati, i quali sarebbero meglio tutelati se la valutazione del loro operato (differenziata a seconda dei ruoli) avvenisse non all’interno di un sistema “chiuso” anch’esso più o meno politicizzato, ma nel più ampio foro della politica generale, il che rappresenterebbe anche un modo per riequilibrare un rapporto tra i diversi poteri dello stato che in questi ultimi tempi tende sempre più (e non solo in ambito giudiziario) a privilegiare i soggetti “tecnici” non eletti rispetto ai rappresentanti politici dei cittadini.

Riforme innanzitutto culturali

Queste riforme culturali, prima ancora che giuridiche (che chi scrive si rende conto sono molto difficili da realizzare per la resistenza della mentalità che si è descritta in precedenza, e delle posizioni consolidate grazie ad essa) non renderebbero certo perfetta la giustizia penale italiana, ma renderebbero, a parere di chi scrive, più chiare e migliorabili le sue imperfezioni, cosa che è sempre un passo importante nella direzione di rendere il potere pubblico più liberale e più democratico.

Il che si ottiene con un’unica ricetta, che comprende sia il controllo reciproco tra i diversi poteri dello stato che il controllo indiretto dell’elettorato attraverso i suoi rappresentanti e quello della pubblica opinione sull’esercizio di tutte le funzioni esercitate dalle autorità pubbliche, compresa quella fondamentale per la convivenza associata rappresentata dalla attività giudiziaria penale.