Che il cammino della Commissione d’inchiesta sull’emergenza Covid sarebbe stato travagliato lo si è intuito fin dal principio. La necessità di far luce su alcune questioni controverse incontra le resistenze di tutti i partiti che hanno sostenuto i due governi (Conte II e Draghi) in carica durante le fasi pandemiche.
Considerato che l’Esecutivo “dei migliori” aveva l’appoggio dell’intero arco costituzionale, con l’eccezione di Fratelli d’Italia, è facilmente intuibile come il percorso verso la ricerca della verità sia particolarmente accidentato. Ora, è arrivato pure il monito del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha usato espressioni particolarmente severe – anche senza citarla – verso la nascente commissione:
Iniziative di inchieste con cui si intende sovrapporre attività del Parlamento ai giudizi della Magistratura si collocano al di fuori del recinto della Costituzione e non possono essere praticate. Non esiste un contropotere giudiziario del Parlamento, usato parallelamente o, peggio, in conflitto con l’azione della Magistratura. Così come non sono le Camere a poter verificare, valutare, giudicare se norme di legge – che il Parlamento stesso ha approvato – siano o meno conformi a Costituzione, perché questo compito è riservato, dall’art. 134, in maniera esclusiva, alla Corte Costituzionale. Non può esistere una giustizia costituzionale politica.
Nessuna interferenza con le procure
Con il dovuto rispetto, le parole del capo dello Stato suscitano qualche perplessità. Innanzitutto, se il riferimento è ad una possibile interferenza del lavoro parlamentare con l’inchiesta della Procura di Bergamo, ogni dubbio può essere fugato dal fatto che diverso è l’oggetto degli accertamenti.
La magistratura si è concentrata in particolare sulle mancate chiusure, archiviando peraltro sia le posizioni di Conte e Speranza ma anche quelle degli altri soggetti coinvolti a vario titolo. In pratica, non è dimostrabile che, istituendo tempestivamente le zone rosse nei territori interessati dai primi focolai, si sarebbe riusciti a contenere la diffusione del virus. Anche questa sarebbe una circostanza da tenere in considerazione, visto il modo in cui sono stati ritenuti salvifici i lockdown dalle nostre parti.
Nessun “contropotere”
Venendo alla seconda parte del ragionamento di Mattarella, non sembra che la Commissione voglia esercitare una sorta di “contropotere” rispetto a quello giudiziario. L’intento è piuttosto quello di illuminare gli angoli della vicenda che meritano un approfondimento. Valutare la compatibilità di alcune delle discusse norme sanitarie con i principi della Costituzione non può essere considerato un atto che esorbita dalle prerogative parlamentari.
La fase dei Dpcm
In tal senso, a sorreggere questa tesi vi è un dato inconfutabile: alcune delle più pesanti limitazioni dei diritti sono state imposte con atti amministrativi che esulano dal controllo di legittimità costituzionale di cui all’art. 134, riservato alle leggi e agli atti aventi forza di legge.
Tali, per esempio, non possono essere reputati i famosi Dpcm contiani o le innumerevoli ordinanze regionali che hanno inciso su diritti costituzionalmente protetti; ordinanze regionali che spesso venivano emanate in deroga e più restrittive di quelle nazionali (paradigmatico è stato il caso della Campania in cui spesso era vietato ciò che a livello nazionale era consentito). Mai quelle ordinanze avrebbero potuto incidere sulla libertà personale e su quella di movimento. A maggior ragione se la fonte di tale “potere” traeva origine da un altro atto amministrativo come appunto i Dpcm.
La fase dei decreti
Per cui, l’osservazione presidenziale andrebbe riferita soltanto alla seconda fase dell’emergenza sanitaria, quella in cui il governo Draghi archiviò la stagione dei Dpcm e si affidò ai decreti legge poi convertiti dal Parlamento. Questi sono atti che non sfuggono al controllo di costituzionalità della Corte che, tra l’altro, si è pure pronunciata su alcuni di quei provvedimenti destando non pochi dubbi per aver basato le sue decisioni sulle “evidenze scientifiche” e non solamente sulla compatibilità della legislazione pandemica con i principi sanciti nella nostra Carta.
Tutto ciò, tuttavia, non toglie al Parlamento la possibilità di accendere i riflettori sull’azione politica e sulla adeguatezza e sull’efficacia degli atti adottati. L’operazione è assolutamente rispettosa dell’art. 82 della Costituzione, come ha già ricordato Federico Punzi. Altrimenti, la stessa azione politica diventerebbe insindacabile da parte delle Camere e uno strumento liberticida come il Green Pass potrebbe essere riproposto in futuro per qualsiasi altra emergenza.
L’incompatibilità del Green Pass
D’altronde, il presupposto su cui il certificato verde è stato introdotto si è poi rivelato inconsistente. Ormai è chiaro che le ripetute dosi non tenevano al riparo dal contagio e dalla possibilità di trasmettere il virus ad altri.
Perciò, appellarsi alla libertà di decidere autonomamente sulla somministrazione di un trattamento sanitario non è un comportamento da reietti ma è perfettamente in linea con i canoni di una democrazia liberale nella quale non si possono prefigurare doveri morali.
È prescritto pure dall’art. 32 della Costituzione di cui, per la verità, si è poco valorizzato il secondo comma durante l’interminabile emergenza. Così come, sarebbe stato indispensabile non travalicare i limiti imposti alla legge dal rispetto della persona umana. Risulta arduo ritenere compatibile questo inciso con la privazione del lavoro o della libertà di movimento comminata a coloro che erano sprovvisti del super Green Pass, quello ottenibile solo con la vaccinazione.
Adesso, voler escludere questi aspetti dall’oggetto di indagine parlamentare significherebbe vanificare in partenza tutto il lavoro. E, soprattutto, significherebbe legittimare e ratificare ex post quello che già ex ante era apparso del tutto sproporzionato.