Politica

Le tre forzature costituzionali della sinistra che si ritiene custode della Carta

Come al solito, la sinistra predica bene ma razzola male, tanto da ignorare o forzare la Carta ogni qual volta la chiara lettera sia contraria ai suoi interessi

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La sinistra rivendica con ossessiva insistenza di essere la più fedele custode ed interprete della nostra Costituzione, perché una volta ridimensionatala a mera carta antifascista, ne sarebbe legittimata dalla parte preponderante assunta nella resistenza partigiana, a sua volta mitizzata come determinante nella liberazione dell’Italia.

Bene, ma come al solito predica bene, ma razzola male, tanto da ignorarla o forzarla ogni qual volta la chiara lettera, se pur tenuta ferma dalla Corte costituzionale, sia contraria ad una sua proposta legislativa. Se ne ha più di una conferma nella proposta programmatica formulata in vista della prossima consultazione elettorale.

Presidenzialismo

Risulta eccessiva la reazione scandalizzata del Pd a fronte di una riforma che introducesse il presidenzialismo, peraltro con riguardo all’elezione diretta del presidente della Repubblica, da declinare secondo una variante soft (mera elezione) o hard (modifica delle competenze).

È un vecchio cavallo di battaglia del centrodestra, ereditato dal Psi craxiano, che è venuto cammin facendo cambiando il suo motivo di fondo: da rafforzamento del vertice istituzionale vis-à-vis del Parlamento a rigetto di un sistema elettivo monopolizzato dalla sinistra.

Tre degli ultimi presidenti su quattro a lei favorevoli: Scalfaro, Napolitano, Mattarella, con elevazione a regola della riconferma, non esclusa formalmente dalla Costituzione, ma certo resa sostanzialmente incompatibile dalla stessa lunghezza della carica.

Ma cosa vede nella riforma il Pd, una volta portato a casa nel ruolo presidenziale un iscritto – sì che, pur nel caso dato per probabile di un governo di centrodestra appena dietro l’angolo, al Quirinale ci fosse un suo uomo? Ci vede solo un trucco per sloggiare l’attuale inquilino prima di aver ultimato il settennio.

Un sospetto più che legittimo, ma che non può trasformare in un attentato alla Costituzione l’eventuale previsione di una entrata in vigore dell’elezione diretta del capo dello Stato prima di quel settennio.

Il che parrebbe del tutto ovvio, se non ci fosse il discutibile precedente di non sciogliere le Camere all’indomani della riduzione del numero dei parlamentari, tenendo in piedi una legislatura – comunque destinata a concludersi in anticipo – al solo scopo di ritardare una vittoria elettorale del centrodestra, che avrebbe comportato la scelta di un candidato ad essa favorevole.

Si deve tener conto, da un lato, che a meno che il centrodestra raggiunga i due terzi dei componenti in entrambe le Camere, eventualità agitata come uno spauracchio, ma assolutamente improbabile, la riforma potrà essere sottoposta a referendum confermativo; dall’altro, che Mattarella, secondo la versione nobile accreditata univocamente, sarebbe stato costretto a furore di popolo a ritornare sulla sua decisione di non ricandidarsi, da lui stesso ribadita a destra e manca, sì da dover trovare sicuro sollievo a vedere accorciata la sua penitenza.

D’altronde, non è che il Pd sia più preciso quando suggerisce come rimedio alla transumanza dei parlamentari – tale da mettere continuamente a rischio la maggioranza di governo, che ha assicurato al nostro Paese un record assoluto nella turnazione a Palazzo Chigi – l’introduzione della sfiducia costruttiva, cioè una sfiducia accompagnata dalla proposta di una maggioranza alternativa.

Suona come una proposta orecchiata, non sembra tener conto dell’essere praticabile in un sistema articolato su una Camera, sì da richiedere una riforma ben più radicale di una variante soft di presidenzialismo.

Non solo, una volta optato per una legge proporzionale, la soglia di accesso dovrebbe essere portata al 5 per cento, così da ridurre in modo drastico il numero dei partiti legittimati ad entrare nell’unica Camera. Se fosse così già oggi sarebbero in cinque sicuri ed uno in equilibrio, insomma un numero apparentemente gestibile di sei.

Rappresentanza sindacale

Non è affatto facile conciliare agli occhi delle grandi confederazioni sindacali l’introduzione del salario minimo e l’emanazione di una legge sulla rappresentanza sindacale, che permetta di disboscare la giungla dei sindacati c.d. autonomi, ricollegando ai contratti stipulati dai sindacati rappresentativi una efficacia erga omnes.

Solo che a meno di predisporre una legge sindacale secondo la stretta disciplina di cui all’art. 39, comma secondo e seguenti della Costituzione, cosa tentata fino alla fine degli anni ’50, poi abbandonata salvo qualche proposta nostalgica; a meno di fare questo, qualsiasi strada alternativa per garantire tale efficacia erga omnes è preclusa dalla giurisprudenza costituzionale, per cui si dovrebbe passare per una riscrittura dei commi di quell’articolo.

Eppure, nelle riforme sottoposte a referendum confermativo, peraltro senza successo, questi commi non sono stati toccati, per una sorta di pregiudiziale, per cui la parte della Costituzione da revisionare era la seconda, quella relativa all’ordinamento della Repubblica, non quelle dedicate ai principi e, rispettivamente, ai diritti e ai doveri dei cittadini, considerate vero e proprio hardcore del compromesso raggiunto in Assemblea costituente tra forze ideologicamente contrapposte.

Matrimonio omosessuale

Dove il Pd finisce per forzare la Costituzione ben al di là di ogni limite, è quando, a chiudere la lunga fila dei “diritti civili” che dovrebbero coniugarsi coi “diritti sociali” in modo inscindibile, prevede il matrimonio fra persone dello stesso sesso, dando per scontato che, se non già praticabile in base all’ordinamento internazionale oppure comunitario, possa essere introdotto con una legge ordinaria.

Il che richiede di smontare l’art. 29, comma primo, laddove recita che la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, negando che società naturale voglia dire eterosessuale, l’unica che possa essere ammessa al matrimonio, – cui consegue tutta una peculiare normativa – in forza degli artt. 2 e 3 cost.

Ora, quale fosse l’intenzione dell’Assemblea costituente è facilmente intuibile dati i tempi, ma che la famiglia naturale dovesse essere eterosessuale trova conferma nel successivo art. 30, dove si parla di genitori e di figli, certo non quelli ottenibili con uteri in affitto.

Tuttavia, fa testo la sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010, che riconosce garantita dall’art. 2, comma primo, come “formazione sociale in cui si sviluppa la propria personalità”, la famiglia omosessuale, ma non ritiene di farne conseguire alcuna legittimazione al matrimonio.

A quanto pare questo matrimonio tanto ambito dalle coppie omosessuali, in uno sforzo di equiparazione che giunge al punto di qualificarsi rispettivamente marito e moglie, per ora non si ha da fare. Qui, diversamente da qualche altro Paese ripetutamente citato, c’è da superare il testo costituzionale.

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