Ci avviamo verso elezioni europee che possono rappresentare una svolta storica o, viceversa, un’occasione sprecata. Speriamo di sbagliarci, ma ci pare che l’enorme posta in palio nei giorni tra il 6 e il 9 giugno non sia pienamente percepita dall’elettorato. Chi avrebbe tutto l’interesse a vedere realizzata questa svolta storica probabilmente non sta facendo abbastanza. Di cosa stiamo parlando?
La posta in gioco è enorme perché l’agenda green si è spinta talmente oltre che questa tornata elettorale potrebbe davvero essere l’ultima chiamata per l’Europa. Se la prossima legislatura e la prossima Commissione europea non invertiranno la rotta, il Continente precipiterà nel baratro della deindustrializzazione e della dipendenza dalla Cina. E il declino economico, oltre che politico diventerà a quel punto difficilmente arrestabile.
La svolta politica necessaria
La svolta storica necessaria, sebbene non sufficiente, perché questa inversione di rotta diventi realtà, consiste nella rottura del consociativismo Popolari-Socialisti nelle istituzioni europee, ovvero una maggioranza al Parlamento europeo di cui non facciano parte Socialisti e Verdi. Una svolta che lungi dall’essere lo scenario più probabile, tuttavia appare mai come oggi a portata di mano.
Ha riscosso poca attenzione, tutto sommato, né entusiasmo né allarme, a seconda dei punti di vista politici, una proiezione di Europe Elects che vede un ipotetico “centrodestra” europeo vicinissimo alla maggioranza assoluta del prossimo Parlamento europeo. Secondo queste stime, il PPE eleggerebbe 183 eurodeputati (solo uno in più rispetto al 2019), il gruppo dei conservatori ECR 86 (+24 seggi) e il gruppo Identità e Democrazia, di Salvini e Le Pen, per intenderci, 84 eurodeputati (+11). I tre gruppi di centrodestra conquisterebbero quindi 353 seggi sui 720 in palio, ad un passo dalla maggioranza assoluta.
Peccato che nessuno sembra credere che sussistano le condizioni politiche perché una simile maggioranza prenda vita. Gli ostacoli di natura politica sono effettivamente più alti di quelli numerici. Il più alto è la presenza di Alternative für Deutschland (AfD) nel gruppo ID, insuperabile soprattutto per la CDU tedesca.
La rottura con AfD
Proprio ieri però si è consumato uno strappo nel gruppo, con l’annuncio dell’espulsione di AfD per le incaute dichiarazioni dell’eurodeputato Maximilian Krah. Sembra che Marine Le Pen e Matteo Salvini, “allineati e concordi”, abbiano colto la palla al balzo: mai più insieme ai tedeschi di AfD al Parlamento europeo. Probabilmente non aspettavano che un pretesto per sancire il divorzio.
Una rottura che allontana la meta di un centrodestra europeo dal punto di vista numerico, ma la avvicina dal punto di vista politico. Con questa decisione infatti Le Pen e Salvini lanciano un segnale preciso a ECR e PPE. Vedremo se sufficiente per aprire il cantiere di un centrodestra europeo, se il prezzo verrà ritenuto “giusto” per renderli digeribili al PPE, che sembra non aver ancora accettato che il vento è cambiato, la stagione delle “larghe intese” con i Socialisti va chiusa.
I cittadini europei hanno ormai compreso quanto Bruxelles incida – purtroppo negativamente – sulle loro vite. Ciò che a nostro avviso li tiene lontani dalle urne europee è la percezione di non poter determinare con il loro voto alcuna svolta politica, essendo il sistema bloccato dal “compromesso storico” tra Popolari e Socialisti. Ma se in Germania la Große Koalition dei tempi della Merkel è un lontano ricordo, anche in Europa potrebbe volgere al termine.
Anche se forse non erano maturi i tempi per l’annuncio prima del voto di una coalizione e di un candidato comune per la prossima Commissione, le leadership dei partiti di centrodestra avrebbero potuto e potrebbero ancora fare di più per trasmettere agli elettori la posta in gioco e il senso di una vera svolta a portata di mano. Per esempio, il PPE non ricandidando Ursula von der Leyen, co-responsabile di quella agenda green che rischia di affossarci; ECR e ID trovando il terreno comune per una intesa strategica e programmatica.
La mano vincente di Giorgia
Il discorso di Giorgia Meloni al recente evento elettorale di Vox è stato comunque un segnale importante. Ribadendo la sua indisponibilità a far parte di una maggioranza con i Socialisti, ha di fatto rottamato le “maggioranze innaturali” cui i Popolari si sono prestati con le sinistre: “Siamo alla vigilia di un voto decisivo, perché per la prima volta l’esito delle elezioni europee potrebbe sancire la fine di maggioranze innaturali e controproducenti“.
E ha bocciato la legislatura europea 2019-2024, “contrassegnata da priorità e strategie sbagliate“. Una bocciatura che non può non includere anche la Von der Leyen, con la quale Meloni aveva mostrato in questi mesi una certa sintonia.
La premier italiana è consapevole che sarà molto probabilmente l’unica tra i capi di Stato e di governo dei grandi Paesi europei a non uscire ammaccata dalle urne, bensì rafforzata, mentre il presidente francese Emmanuel Macron, leader di Renew Europe, e il cancelliere tedesco Olaf Scholz, socialista, ne usciranno con le ossa rotte. A buon diritto dunque Meloni si troverà nella posizione per dare le carte dei futuri assetti istituzionali Ue.
La via olandese
Un’occasione, appunto, da non sprecare. Per una volta l’Italia può essere laboratorio politico. La via per un centrodestra europeo è stata infatti tracciata dal centrodestra italiano uscito vittorioso dalle elezioni del 2022 e, più recentemente, dall’appena nato governo olandese dopo la vittoria di Geert Wilders alle ultime elezioni, in una versione ancora più limpida e coraggiosa.
Le basi su cui possono ritrovarsi le forze centriste e di destra europee sono l’adesione all’atlantismo e il totale rigetto dell’agenda green. No al putinismo e no al gretinismo, come ha sintetizzato Musso pochi giorni fa su Atlantico Quotidiano. L’abbandono del putinismo ha significato la separazione delle economie europee dalla Russia. L’abbandono del gretinismo dovrà significare la separazione delle economie europee dalla Cina.
Il forte depotenziamento dell’europeismo nell’accordo di governo olandese significa togliere potere allo strumento che più ha contribuito ai due precedenti errori franco-tedeschi di radicarsi e maturare i propri frutti avvelenati.
Un accordo di governo, quello olandese, al quale dovrebbe guardare anche il governo Meloni per rilanciare la sua agenda, asfittica, involuta e troppo timida in particolare nel contrastare le politiche climatiste.
Ecco alcuni punti del programma di governo siglato da Wilders e soci: via libera al cd “consumo del suolo” (100.000 nuove abitazioni l’anno, niente nuove tasse sulle abitazioni, etc); di nuovo 130km/h in autostrada; cancellazione dell’obbligo di ridurre i capi di bestiame; ritorno dei cd sussidi inquinanti (sconti al diesel agricolo); tagli al “fondo climatico” nazionale; 4 nuove centrali nucleari; nuovi campi gasieri in alto mare; niente nuove turbine eoliche su terra e limiti a quelle per mare; taglio ai sussidi alle cd “energie verdi”; cancellazione degli sconti in fattura ai proprietari di pannelli solari; cancellazione dei sussidi alle auto elettriche; cancellazione dell’obbligo di sostituire le caldaie a gas con pompe di calore.