Il dibattito in corso su quella che con parole gentili è detta “maternità surrogata” o più brutalmente “utero in affitto” ha coinvolto le varie componenti politiche presenti nella realtà italiana, contrapponendo grosso modo la sinistra più o meno radicale da un lato e il centrodestra e i cattolici dall’altra, intorno ad un tema che, prima ancora che stimolare un giudizio (nettamente contrario, da parte di chi scrive – è giusto anticiparlo) sulla possibilità di rendere lecita questa pratica anche in Italia, induce a riflettere quanto il mondo, ma sarebbe meglio dire la cultura per tanti aspetti dominante nelle élites occidentali stia cambiando, in peggio, negli ultimi decenni, portando, sotto la bandiera della libertà assoluta a compiere veri e propri attacchi alla personalità e in fondo alla stessa libertà delle categorie più deboli che si pretende di tutelare o dei valori dei soggetti più indifesi che si pretende di proteggere.
“Il boom”
Giusto sessant’anni fa, era il 1963, eravamo in Italia in pieno sviluppo economico, quello sviluppo che avrebbe portato un Paese essenzialmente agricolo a diventare – sia pure con molte pecche a livello di vita civile – una della maggior potenze industriali del mondo. E uscì un film che di quel periodo voleva sottolineare, magari con una certa aria moralista, a metà tra il comico e il tragico, gli eccessi della ricerca della ricchezza e dello status sociale a tutti i costi.
Il film si intitolava significativamente “Il boom”, la regia era di Vittorio de Sica, la sceneggiatura di Cesare Zavattini, coppia collaudata nella filmografia del Dopoguerra. La pellicola racconta la storia di Giovanni Alberti, un palazzinaro romano, interpretato dal grande Alberto Sordi (impagabile sia in ruoli comici che drammatici) in gravi difficoltà economiche in quanto incapace di restituire una somma ricevuta in prestito, e minacciato di abbandono dalla moglie Silvia (Gianna Maria Canale).
Al protagonista non rimane altra soluzione che quella di procurarsi a tutti i costi il denaro necessario per ripagare il prestito e proseguire la sua attività, denaro che però essendo il nostro privo di appoggi personali e/o finanziari, nessuna banca e nessun finanziatore, e nemmeno i parenti e i presunti amici gli vogliono concedere. Ad offrirgli l’ancora di salvataggio economica giunge allora la signora Annetta Baussetti (Elena Nicolai), che dopo averlo convocato ed avergli esposto l’infelice situazione del marito, il ricco costruttore Carlo Baussetti (Ettore Geri), rimasto cieco ad un occhio in seguito ad un incidente di cantiere, gli propone di offrirgli una somma ingente di denaro, tale da onorare il prestito ricevuto e da proseguire senza problemi la sua attività, in cambio della donazione di una cornea al marito, dato che questi ritiene che il trapianto da una persona giovane e sana come Alberti sia di molto preferibile al trapianto effettuato da una persona deceduta.
Alberti rifiuta sdegnosamente quella che ritiene un’offesa alla sua dignità e un attacco alla sua persona e alla sua libertà, ma gli avvenimenti successivi lo fanno ricredere. Si diffonde la notizia che Alberti è rovinato, sull’orlo della bancarotta; la moglie lo abbandona, prende con sé il figlio e torna dalla madre; gli amici lo lasciano, in men che non si dica è ridotto ad una condizione di reietto.
Decide allora di accettare la proposta della signora Baussetti, che gli elargisce un congruo anticipo, con il quale rimette le cose a posto: la moglie ritorna; viene offerto un ricevimento in pompa magna con il quale insieme a parenti ed amici (gli stessi che gli avevano rifiutato gli aiuti) viene celebrato il suo successo imprenditoriale. Recatosi nella clinica di proprietà del ricco Baussetti per il trapianto, sulle prime Alberti non resiste e fugge, ma inseguito dalla signora viene poi convinto ad accettare il patto e mentre si avvia mestamente (con tutta la bravura del Sordi attore drammatico) verso la clinica per contraccambiare a caro prezzo le somme ricevute, il film si chiude.
Nessuno allora si sarebbe sognato di approvare il patto, e forse penso che a nessuno passò mai per la mente di farlo ed anche ora rivedendo il film, il giudizio morale sulla vicenda non può che essere di condanna per l’operato della ricca coppia che sfrutta le difficoltà economiche di un personaggio, magari discutibile nelle sue ambizioni, ma rispettabile nella sua inviolabile dignità umana, una dignità che il consenso, forzato, non può comprare.
Maternità “affittata”
Oggi però si pretende di rendere lecito anche in Italia, come già avviene in altri Paesi (in molti Stati americani, e in gran parte degli Stati europei) che una donna presti il proprio corpo per denaro al fine di regalare un figlio a chi per natura (una coppia omosessuale) non può averne.
Atti di disposizione del proprio corpo li chiama il nostro codice civile (art.5), che li vieta ponendo un limite alla libertà di gestire sé stessi, un limite a tutela dei più deboli, di coloro che (al di là della surreale ipotesi del film con Sordi) possono essere costretti o quantomeno indotti dal potere non solo del denaro, ma anche dal potere gerarchico, di relazione ecc. a compiere un atto, prestare il proprio corpo, portare in grembo un figlio ad uso e consumo altrui, firmando tanto di liberatorie, come per il prestito di un oggetto.
La perdita di un occhio è un danno permanente alla persona, ma altrettanto, sia pure in modo diverso, lo è una gravidanza per conto altrui e portata avanti per denaro, una esperienza (e qualche caso si è già verificato) che può portare a gravi ripensamenti e drammatici conflitti nel prosieguo della vita, sia per la madre surrogata che per il figlio giunto in età adulta.
Quanto siano cambiati la cultura ed il modo di ragionare, di giudicare su due fatti essenzialmente simili (detto con tutto il rispetto chi scrive non vede alcuna differenza tra i due casi, in entrambi i quali una persona cerca di sopperire alla sue difficoltà comprando o “affittando” il corpo di un altro essere umano), lo dice il diverso modo di presentare la vicenda che si può notare tra il film degli anni ’60 e la situazione attuale della maternità “affittata”.
La vittima del contratto
Nel film, come era normale per la morale tradizionale, i riflettori erano puntati su colui che cedeva il proprio corpo per denaro che, pur tra le frecciate moralistiche al personaggio e soprattutto ai suoi amici e parenti (in particolare alla moglie) era sostanzialmente considerato una vittima del contratto, una vittima consenziente, ma certamente non libera nella sua decisione, una decisione in parte frutto della sua ambizione, forse della sua viltà, ma questo poco importa: certamente una vittima della prevaricazione da parte del più ricco, del più potente, di colui che faceva parte di un’élite nella quale il palazzinaro Sordi aspirava ad entrare.
Il giudizio morale e sociale di condanna del contratto di cessione della cornea non viene nemmeno in luce tanto esso era dato per scontato. Il mezzo di scambio, il denaro, poteva essere considerato in maniera diversa a seconda delle differenti concezioni: nel caso specifico alcuni (sinistra) avrebbero parlato di una ennesima dimostrazione del fatto che i soldi sono lo “sterco del diavolo”, mentre altri (destra e moderati) avrebbero visto nel caso un uso riprovevole di una cosa che può essere usata per fini migliori.
Quanto al compratore della cornea, il film quasi lo tiene in ombra, essendo sovrastato dell’azione delle moglie (è lei che tratta con Alberti-Sordi), quasi che non contasse, ma fosse una pura forza cattiva che vuole imporre la proprie pretese ad un suo simile, eliminando la sua disgrazia (la cecità) a spese di altri, e la stessa pietà per la sua situazione passa in secondo piano di fronte alla sua decisione di spostare il peso della stessa a carico del suo prossimo.
Prospettiva rovesciata
Al contrario di quanto avviene nel film, nel dibattito attuale la persona che cede in affitto il proprio corpo non viene in luce, entra in una zona d’ombra che la rende irrilevante: l’unica cosa che conta è il consenso formale (ahimè legalizzato, mi si consenta di dirlo, in molti Paesi).
Poco importa che esso leda la dignità e la libertà dell’essere umano di sesso femminile, poco importa che nessuna donna (lasciamo stare i casi assolutamente eccezionali di maternità surrogata per motivi altruistici, che meriterebbero una riflessione a parte) acconsentirebbe se non in qualche modo costretta dalle circostanze e dalle pressioni esterne, nobili e meno nobili, ad affittare il proprio corpo per denaro.
Un rovesciamento di prospettiva analogo ma di segno diametralmente opposto sia ha nella figura della controparte: tanto il compratore dell’occhio di Sordi era nascosto, tanto invece è messa in luce, ed esaltata oggi la figura dell’affittuario (mi si perdoni l’espressione, ma la logica del contratto va seguita fino in fondo) dell’utero.
I suoi bisogni, cioè il desiderio di essere genitore sono innalzati al massimo grado e trasformati in una pretesa assoluta da tutelare legalmente (cioè in un vero e proprio diritto) e da soddisfare a tutti i costi, pena una inammissibile lesione della personalità umana, mentre l’impossibilità di farlo, lungi dall’essere considerata una situazione certo spiacevole e degna di comprensione, ma che fa parte della realtà e della condizione umana, visto che due persone dello stesso sesso non possono procreare, viene vista come una ingiusta limitazione alla libertà del singolo, che diventa in tal modo la vera vittima della situazione.
Quanto al denaro, il mezzo di scambio con cui si può disporre del corpo altrui, sul suo uso scompare ogni giudizio morale o politico/civile, dato che esso viene considerato come un semplice strumento con il quale chi ne dispone (e in questo senso questa concezione assume un carattere decisamente elitario, dato che solo pochi dispongono delle somme necessarie ad affittare il corpo altrui) può raggiungere i propri scopi.
Evoluzione in-civile
Spero che questo breve confronto tra due situazioni analoghe, se non identiche dal punto di vista del nostro discorso, sia stato utile per evidenziare il mutamento di valori che si sta verificando nella cultura occidentale. Un confronto terra terra tra le due situazioni, quella del film degli anni ’60 e quella attuale porta chi scrive di primo acchito a definire in-civile questa evoluzione dei costumi che si sta realizzando, ma il termine non vuole essere offensivo (absit iniuria verbis dicevano gli antichi), dato che il rispetto per le idee altrui per chi vuole essere liberale costituisce pur sempre la guida di ogni analisi della realtà.
Ma vuole invitare ad una riflessione più profonda: dietro questa posizione sulla maternità surrogata si cela forse un nuovo concetto di civiltà, diverso da quello che ha caratterizzato la cultura occidentale nella sua lunga storia e in particolare negli ultimi secoli? E se sì quale? E come ci si deve porre di fronte ad esso? È una realtà irreversibile o la concezione etica e civile tradizionale può sopravvivere e, magari modificata, può riaffermare le proprie ragioni?
Domande importanti che il caso della maternità surrogata solleva e che se i lettori gradiranno, chi scrive proverà a trattare in futuro, dato che il presente scritto aveva la funzione solo di contribuire, tramite un confronto che ho ritenuto significativo, a mettere meglio in evidenza il problema, cioè il fatto che sotto un tema particolare (anche se oggetto di un importante scontro politico) si cela un possibile cambiamento culturale ben più ampio, capace di trasformare – in peggio a mio avviso – la vita civile delle società occidentali.