Milei nella “tana del lupo”: una lezione liberale all’élite socialista di Davos

Colpi micidiali a socialisti, femministe e green. Nemmeno i “liberali” capiscono il mercato. E agli imprenditori: “Non lasciatevi intimidire, siete benefattori sociali”

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Milei Economic Forum

Il discorso di Javier Milei a Davos ha segnato un’altra tappa nella storia politica del liberalismo contemporaneo. E ha eliminato un altro alibi ai più pigri liberali italiani.

Infatti, se le elezioni presidenziali in Argentina hanno svelato che si possa vincere pur proponendo un programma liberale (esplicito, non annacquato e senza compromessi), il discorso a Davos è invece la dimostrazione che si può parlare da liberale, in un ambiente internazionale esclusivo, composto quasi interamente da socialisti, senza essere buttati fuori dalla security. Le parole del neopresidente argentino sono a metà strada fra una lezione di economia e un manifesto programmatico.

Per i pignoli: Milei, per non confondere il pubblico internazionale, definisce “libertario” il suo pensiero. Perché è un libertario, seguace della scuola austriaca dell’economia e perché liberale (“liberal” in inglese) è ormai talmente usato e abusato dalla sinistra progressista che ha perso il suo significato. Comunque, quando il presidente argentino sostiene che il suo modello politico si fonda sui diritti individuali di vita, libertà e proprietà, quella è la base del liberalismo classico, non solo del libertarismo americano contemporaneo.

Capitalismo motore del progresso

Detto questo, Milei ha prima di tutto ricordato quale sia l’effetto del capitalismo. Parlando ad una platea di élite ormai attratta dalle teorie della decrescita (Latouche), ha sbugiardato tutto con poche semplici cifre:

Quando [noi argentini, ndr] abbiamo adottato il modello della libertà, nel lontano 1860, in 35 anni siamo diventati il Paese più ricco del mondo. Mentre quando abbiamo abbracciato il collettivismo, negli ultimi 100 anni, siamo diventati progressivamente sempre più poveri, fino a scendere al 140mo posto al mondo.

L’unico motore del progresso è il capitalismo:

Se consideriamo la storia del progresso economico, possiamo vedere come dall’anno zero fino all’anno 1800 circa, il Pil pro capite nel mondo è rimasto praticamente costante durante tutto il periodo di riferimento. Se si guarda all’evoluzione della crescita economica nel corso della storia umana, si vede un grafico a forma di mazza da hockey: una funzione esponenziale che è rimasta costante per il 90 per cento del tempo e scatta esponenzialmente verso l’alto a partire dal XIX secolo. (…) Ora, non solo il capitalismo ha generato un’esplosione di ricchezza dal momento in cui è stato adottato come sistema economico, ma se si analizzano i dati, ciò che si osserva è che la crescita ha accelerato durante tutto il periodo.

Come tutti i migliori liberali, Milei non si ferma alla cronaca nera, ma resta ottimista perché allarga lo sguardo. E può razionalmente affermare che, dalla rivoluzione industriale in poi, il capitalismo “… ha fatto uscire dalla povertà il 90 per cento della popolazione mondiale. Non dobbiamo mai dimenticare che nel 1800 circa il 95 per cento della popolazione mondiale viveva nella povertà più estrema, mentre quel numero è sceso al 5 per cento nel 2020, prima della pandemia”.

E ancora oggi, comunque, “grazie al capitalismo di libera impresa il mondo è nel suo momento migliore. Non c’è mai stato, in tutta la storia dell’umanità, un periodo di maggiore prosperità di quello in cui viviamo oggi. Il mondo oggi è più libero, più ricco, più pacifico e più prospero che in qualsiasi altro momento della nostra storia. Questo vale per tutti, ma soprattutto per quei Paesi che sono liberi e rispettano la libertà economica e i diritti di proprietà degli individui”.

Le idee sbagliate

Come mai, allora, siamo circondati da discorsi apocalittici e ci pare di vivere nel peggiore dei mondi, paradossalmente proprio qui nel Mondo Libero? La risposta di Milei è semplice: idee sbagliate. Prima di tutto, attacca a testa bassa la teoria economica neoclassica, i suoi modelli “calati sulla realtà” e la sua affannosa ricerca di correzioni ai presunti “fallimenti del mercato”.

Con il pretesto di un presunto fallimento del mercato si introducono regolamentazioni che generano solo distorsioni al sistema dei prezzi, che impediscono il calcolo economico e, di conseguenza, il risparmio, gli investimenti e la crescita. Questo problema risiede essenzialmente nel fatto che nemmeno gli economisti apparentemente liberali capiscono cosa sia il mercato, giacché se lo si capisse si vedrebbe subito che è impossibile che esista qualcosa come un “fallimento di mercato”. Il mercato non è una mera descrizione di una curva di offerta e di una curva di domanda su un grafico. Il mercato è un meccanismo di cooperazione sociale in cui si scambiano volontariamente i diritti di proprietà. Se le transazioni sono volontarie, l’unico contesto in cui può verificarsi un fallimento di mercato è se vi è coercizione, e l’unico con capacità di coercizione in modo generalizzato è lo Stato che ha il monopolio della violenza.

I falsi conflitti sociali

Usando i modelli neoclassici, i governi non fanno che cercare di spegnere incendi gettandovi benzina, alimentando il problema invece che risolverlo: “In altre parole, ogni volta che si vuole correggere un presunto fallimento del mercato, inesorabilmente, non sapendo cosa sia il mercato o innamorandosi di un modello fallito, si aprono le porte al socialismo e si condannano le persone alla povertà”. Perché: “… non si dovrebbe mai dimenticare che il socialismo è sempre e dovunque un fenomeno di impoverimento, che è fallito in tutti i Paesi in cui è stato tentato. È stato un fallimento sociale, è stato un fallimento culturale e ha anche ucciso di più di 100 milioni di esseri umani”.

Il socialismo è duro a morire, anche dopo il collasso dei regimi socialisti reali in Europa, sa “conquistare il senso comune”, riciclando le sue teorie.

I socialisti, infatti, “si sono lasciati alle spalle la lotta di classe basata sul sistema economico per rimpiazzarla con altri presunti conflitti sociali che sono ugualmente dannosi per la vita della comunità e la crescita economica”. Il primo di questi falsi conflitti è “… la ridicola e innaturale lotta tra uomo e donna“.

L’unica cosa che ha ottenuto questa agenda del femminismo radicale è un maggiore intervento dello stato per ostacolare il processo economico. Dare lavoro a burocrati che non contribuiscono in alcun modo alla società, sia sotto forma di ministeri per le donne che di organizzazioni internazionali dedicate a promuovere questa agenda.

L’altro falso conflitto è “quello dell’uomo contro la natura”. In cui i socialisti “sostengono che gli esseri umani nuocciono al pianeta, che deve essere protetto a tutti i costi, addirittura sostenendo un meccanismo di controllo della popolazione o la tragedia dell’aborto”.

Che dire: un colpo alle femministe e uno ai verdi, proprio nella “tana del lupo”, a Davos, dominata da filantropi e politici che coltivano e diffondono quelle idee.

Appello agli imprenditori

Ma il neopresidente argentino non si limita alla pars destruens e dimostrando tatto, senza fare lo sfascista, si rivolge proprio agli imprenditori presenti, qualunque idea abbiano. Perché si ricordino di fare gli imprenditori. Il finale ricorda il discorso di John Galt nel romanzo “La Rivolta di Atlante” di Ayn Rand:

“Non lasciatevi intimidire. Non arrendetevi a una casta politica o ai parassiti che vivono delle spese dello stato, che vuole solo restare al potere e mantenere i propri privilegi. Siete benefattori sociali, siete eroi, siete gli artefici del più straordinario periodo di prosperità che abbiamo mai vissuto. Non lasciate che vi dicano che la vostra ambizione è immorale. Se guadagnate è perché offrite un prodotto migliore a un prezzo migliore, contribuendo così al benessere generale. Non arrendetevi all’avanzata dello Stato. Lo Stato non è la soluzione. Lo Stato è il problema. Siete voi i veri protagonisti di questa storia, e sappiate che da oggi avete l’Argentina come alleato incrollabile.

E si conferma come la storia dell’idea della libertà sia costellata di paradossi. Da una Ayn Rand che arriva dalla Russia, nel 1926, in fuga dal comunismo, per ricordare agli americani (che stavano abbracciando il socialismo) di tornare a credere ai loro ideali, a un presidente dell’Argentina, in lotta contro il populismo e il pauperismo, che ricorda ai capitalisti (ormai tutti verdi e socialisti) di tornare a credere in loro stessi.

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