È inutile girarci intorno: per una serie di circostanze perlopiù al di fuori del suo controllo, dalle elezioni europee (e francesi) non sono scaturiti gli scenari più favorevoli a Giorgia Meloni.
In modo cinico ma anche molto miope, il PPE ha deciso di riproporre la “maggioranza Ursula”, coinvolgendo le stesse forze politiche punite dagli elettori: socialisti, verdi e macronisti. Fuori dalle trattative per i top jobs Ue, al gruppo ECR guidato da Meloni non si è voluto riconoscere nemmeno la dignità di interlocutore. Quasi di nascosto la presidente della Commissione uscente Ursula Von der Leyen è andata a chiedere i suoi voti, per non irritare le altre componenti rosso-verdi della sua maggioranza.
Tutto questo nonostante in Italia da due anni sia al governo una coalizione di centrodestra che dovrebbe rappresentare per il PPE un modello a cui guardare anche in Europa. E nonostante le due componenti maggioritarie del gruppo, la CDU e il PP, abbiano raccolto i voti rispettivamente di tedeschi e spagnoli contro i governi di sinistra nei loro Paesi, salvo poi usarli per “governare” insieme a quelle stesse sinistre a Bruxelles – di fatto raggirando i loro elettori.
La presidente Von der Leyen chiede oggi la riconferma sulla base della stessa maggioranza politica che l’ha sostenuta nel suo disastroso primo mandato – ieri picconato anche dalla Corte di Giustizia sulla mancata trasparenza sui vaccini. Non si vede in cosa dovrebbe differenziarsi la sua agenda rispetto a quella dei primi cinque anni. Un’agenda fatta di transizione green e centralismo, dirigismo e attacco selvaggio alla proprietà e alla libertà d’espressione (con il Digital Services Act) dei cittadini europei.
Non si vede cosa ci si possa aspettare di diverso. Può darsi, certo, che i Popolari riescano a smussare qualcuna delle assurdità green, ma per un Continente che negli ultimi cinque anni ha imboccato a tutta velocità la strada della de-industrializzazione ci vorrebbe ben altro. È un Continente portato sull’orlo del baratro dalla signora Von der Leyen e dai suoi sodali politici.
No, non ci sono le condizioni per votare a favore del bis di VDL. E sarebbe un grave errore per Meloni restare a metà strada, continuare nell’ambiguità o peggio sostenerla nell’ombra. Primo, perché un voto contrario oggi non le impedirebbe comunque di sostenere le iniziative condivisibili che dovesse avanzare la nuova Commissione.
Secondo, perché non è raccogliendo le briciole che cadono dal tavolo di Francia e Germania che l’Italia potrà riconquistare lo status che le spetta. Per dirla tutta: nessun commissario “di peso” vale lo “sputtanamento”.
Terzo, perché tendere ancora la mano a Von der Leyen scaverebbe un solco tra il partito di Meloni e il blocco delle destre europee, che si preparano ad una opposizione giustamente senza sconti alla “maggioranza Ursula”. Forze di destra che Meloni avrebbe invece le carte in regola per guidare con reciproci benefici.
Aveva probabilmente un senso per la premier italiana scommettere su un buon rapporto personale con Von der Leyen e su un dialogo con i Popolari. Ma ora è il momento di guardare in faccia la realtà e di tracciare un bilancio: non ha pagato come si pensava. Non è servito a garantire a Meloni la centralità che sperava nei nuovi equilibri di potere europei – anzi, è ancora relegata ai margini e mal sopportata – e ora perseverare rischia di condannarla all’isolamento anche a destra.
Il voto di oggi segnerà anche i tre anni rimanenti di governo di Giorgia Meloni in Italia.