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Non solo Ucraina: in Etiopia una guerra di proporzioni terrificanti

Una carneficina: centinaia di migliaia i soldati caduti e le vittime civili (uccise o morte di stenti), altrettanti gli sfollati. Crimini di guerra e rischio jihadista

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“La guerra più grande oggi in realtà si combatte in Etiopia, non in Ucraina”. A dirlo è Kjetil Tronvoll, vice rettore dell’Oslo New University College, e non, come il direttore generale dell’Oms, l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, per concludere che le vite nere e quelle bianche non hanno lo stesso valore e “tutti se ne fregano di quel che sta succedendo nel Corno d’Africa”.

Kjetil Tronvoll si limita constatare un fatto. In Etiopia da due anni si combatte una guerra di proporzioni terrificanti: per numero di soldati impegnati, di uomini caduti in battaglia, di civili uccisi e morti di stenti, di sfollati.

È una guerra di cui non si sa molto perché il governo di Addis Abeba fin dall’inizio ha limitato e, quando ha potuto, ha impedito l’accesso di mass media e osservatori ai territori in cui si combatte, ma le informazioni che trapelano sono tali da avvalorare l’affermazione di Tronvoll.

In questo momento si stima che i militari impegnati nei combattimenti in Etiopia siano almeno 700.000, forse un milione, ed è possibile che altri centinaia di migliaia abbiano perso la vita da quando il conflitto è scoppiato due anni fa.

Le origini del conflitto

Tutto ha avuto inizio il 4 novembre del 2020 quando i combattenti dell’Fplt, il partito dell’etnia Tigré, hanno attaccato una base militare governativa a Macallé, la capitale della loro regione. È stato il loro primo atto di guerra contro il governo federale.

L’obiettivo era riprendere il controllo delle istituzioni politiche ed economiche del Paese che i tigrini, pur costituendo solo il 6 per cento della popolazione, avevano detenuto per quasi 30 anni e perso nel 2018 quando l’attuale primo ministro, Abiy Ahmed Ali, esponente dell’etnia maggioritaria Oromo, era stato nominato primo ministro.

Accusando, in verità del tutto a ragione, i governi precedenti di corruzione e di sistematiche, gravissime violazioni dei diritti umani, Abiy ha subito rimosso dalle maggiori cariche governative numerosi esponenti dell’Fplt. Quindi, nel 2019, ha deciso di fondere i partiti a base etnica della coalizione di governo in un unico partito, il Partito della prosperità. L’Fplt ha rifiutato di confluirvi sostenendo che il premier mirava a smantellare la struttura federale e a sostituirla con un sistema di governo centralizzato.

Si è aperta allora la crisi politica che nel 2020 è degenerata in rivolta armata. Per mesi le truppe dell’Fplt hanno marciato verso la capitale, a momenti contenute a stento dai militari governativi. Quando, nel novembre del 2021, la stessa Addis Abeba sembrava minacciata, il primo ministro Abiy ha dato ordine a tutta la popolazione di prepararsi a difendere la città casa per casa, ha raggiunto il fronte per dirigere personalmente le operazioni. Solo allora l’avanzata dei tigrini è stata fermata.

Perdite enormi e crimini di guerra

“È una guerra combattuta alla vecchia maniera – sostiene Abdurahman Sayed, amministratore delegato del Muslim Cultural Heritage Centre di Londra – si arruolano i civili a forza e, dopo poche settimane di addestramento, si mandano a combattere usando la tattica delle ‘ondate umane’ che consiste nello schierare masse di soldati e farle marciare verso le linee nemiche. L’esercito avversario apre il fuoco, ma una ondata dopo l’altra i soldati avanzano e, quando l’avversario finisce le munizioni, conquistano il campo”.

È una tattica che provoca enormi perdite. Sia il professor Sayed sia lo studioso di storia e istituzioni del Corno d’Africa Faisa Roble stimano che possano essere addirittura mezzo milione i soldati morti nelle prime due fasi della guerra e altri 100.000 dalla ripresa dei combattimenti lo scorso agosto, dopo la fine della tregua umanitaria concordata a marzo e durata solo cinque mesi.

Poi ci sono le vittime civili. Secondo un calcolo approssimativo potrebbero essere già 500.000: circa metà morti di fame e di malattie e ferite non curate, gli altri uccisi dai militari per rappresaglia o semplicemente per rabbia e odio. “Su entrambi i fronti le perdite sono tante. Quando i soldati arrivano in un villaggio si sfogano sulla gente”, spiega un operatore umanitario intervistato nei giorni scorsi dalla Bbc.

Si ha testimonianza di massacri indiscriminati, abusi, stupri. I soldati compiono razzie e distruggono i beni che non portano via. Governo e Fplt si accusano di violenze sui civili e di impedire ai convogli umanitari di raggiungere le comunità bisognose di aiuto. A settembre l’Onu ha dichiarato che c’è ragione di credere che tutte le forze coinvolte nel conflitto abbiano commesso crimini di guerra.

L’intervento dell’Eritrea

Da quando la tregua è stata violata, il governo etiope ha deciso di sferrare una offensiva che non lasci scampo ai tigrini. Lo sostiene, con le sue truppe l’Eritrea. Con il presidente eritreo Isaisas Afewerki nel 2018 Abiy ha firmato una dichiarazione di pace e amicizia che ha messo fine definitivamente a un conflitto scoppiato nel 1998 per questioni relative alla delimitazione di alcuni punti di frontiera tra i due Paesi.

L’iniziativa ha valso ad Abiy il premio Nobel per la pace, ma ha aumentato i motivi di risentimento dell’Fplt perché il Tigré confina con l’Eritrea e i rapporti tra tigrini ed eritrei sono sempre stati tesi. Pochi giorni dopo l’inizio delle ostilità, l’Fplt ha lanciato dei razzi sull’Eritrea, caduti vicino all’aeroporto internazionale della capitale Asmara. Il presidente Afewerki ha reagito inviando le prime truppe nel Tigré contro l’Fplt. Adesso, insieme, i militari etiopi e eritrei si ritiene siano mezzo milione, mentre l’Fplt ha attivi circa 200.000 uomini.

Da settimane i tigrini arretrano, incalzati. Sono iniziati i bombardamenti a tappeto delle città del Tigré dove erano confluiti milioni di sfollati nella speranza di trovare salvezza. Nei villaggi abbandonati, raccontano dei testimoni, le iene si aggirano tra i cadaveri insepolti. Quel che rimane dopo il loro passaggio, sono resti umani irriconoscibili e brandelli di abiti: “è una carneficina orrenda, forse sono state uccise 100.000 persone solo in queste ultime settimane”.

Uno spiraglio

L’Fplt la settimana scorsa ha chiesto alla comunità internazionale di istituire un tavolo dei negoziati o in alternativa di essere aiutato a difendersi. È difficile immaginare degli aiuti militari internazionali a un gruppo etnico che ha sfidato il proprio Paese e ha scatenato una guerra solo per recuperare il potere perduto.

Avviare un tavolo di negoziati è quel che propongono Nazioni Unite, Unione Africana, Unione Europea. “L’odio tra i due fronti è così profondo da rendere quasi inevitabile che gli sconfitti siano puniti senza pietà”, avvertono gli osservatori che seguono da vicino la crisi etiope e ormai parlano di rischio genocidio.

Finalmente uno spiraglio si è aperto il 20 ottobre quando il primo ministro Abiy ha annunciato di aver accettato l’invito dell’Unione Africana a partecipare a colloqui di pace, a partire dal 24 ottobre in Sudafrica.

La carestia

Lo ha detto mentre presenziava all’inaugurazione di un centro per lo sviluppo dei talenti nell’Oromia, una delle regioni nelle quali si sta combattendo un’altra terribile guerra, quella contro la carestia causata dalla siccità che ha colpito il sud del Paese dove oltre otto milioni le persone patiscono livelli critici di denutrizione.

Se anche quest’anno le piogge, per la quinta stagione, saranno scarse o assenti, il numero potrebbe più che raddoppiare. La popolazione rurale è dedita alla pastorizia e all’agropastorizia. Si stima che finora siano morti 3,5 milioni di capi di bestiame e che altri 25 milioni siano a rischio. Anche gran parte dei raccolti vanno perduti e molti agricoltori hanno rinunciato a seminare o non sono più in grado di farlo.

Nei territori più danneggiati dalla siccità, il Somali e l’Oromia meridionale, più di 300.000 persone sono sfollate: in prevalenza donne e bambini che si sono diretti verso i centri urbani, in cerca di assistenza, mentre gli uomini sono rimasti ad accudire quel che resta del bestiame e dei raccolti.

Complessivamente le persone che attualmente in Etiopia hanno bisogno di aiuti alimentari sono almeno 20 milioni, un sesto della popolazione. Questo nonostante quella etiope sia l’economia più solida e in crescita della regione. Negli ultimi 16 anni l’Etiopia è stato uno dei Paesi che hanno registrato la più rapida crescita economica del mondo, a una media del 9,5 per cento annuo.

È il paradosso, così frequente in Africa, di una crescita economica che non si traduce in sviluppo umano e in definitiva neppure economico. Con 121 milioni di abitanti l’Etiopia è anche il secondo Paese africano più popoloso.

La bomba rifugiati

Tra le ripercussioni che la guerra e la carestia possono avere a livello regionale, e oltre, ad allarmare è la quantità di persone, milioni, che al protrarsi della crisi possono decidere di cercare rifugio nei Paesi vicini, nessuno dei quali è in condizione di ospitare grandi numeri di rifugiati: non tanto per il costo della loro assistenza, alla quale provvederebbero come di consueto Nazioni Unite, organizzazioni non governative e stati donatori, ma per le condizioni critiche in cui a loro volta versano.

Il Sudan del Sud, il Sudan, la Somalia sono anch’essi in guerra (la Somalia dal 1987, il Sudan del Sud dal 2013, il Sudan praticamente da sempre), gli altri stati per problemi legati alla siccità e alla minaccia jihadista, rappresentata dal gruppo armato somalo al Shabaab, affiliato ad al Qaeda.

Il temuto allargamento del conflitto ai Paesi vicini, dove vivono etnie presenti in Etiopia o legate da vincoli di solidarietà a quelle etiopi, si è già in parte avverato con la presenza dell’Eritrea al fianco delle truppe governative.

Le incursioni di al Shabaab

A destare preoccupazione infine è la situazione della Somalia dove i soldati etiopi combattono al Shabaab fin dal 2006, anno della sua costituzione, e hanno dato un contributo determinante a contenere e poi a ridurre il raggio d’azione dei jihadisti. Insieme ai militari di altri Paesi, africani e non, garantiscono la sicurezza del governo somalo.

Ma all’inizio della guerra Abiy ha richiamato migliaia di militari dalla Somalia. Al Shabaab ne ha approfittato per intensificare attentati e attacchi. Non si è limitato a questo. Il 20 luglio centinaia di combattenti al Shabaab sono entrati in Etiopia, hanno attaccato due villaggi e ucciso 17 persone, tra militari e civili, prima di essere ricacciati oltre confine.

Il 25 luglio i jihadisti hanno di nuovo oltrepassato la frontiera e questa volta hanno attaccato Aato, una città. È la prima volta che al Shabaab riesce a compiere incursioni di questa portata. Si è inoltrato in territorio etiope per circa 150 chilometri impiegando circa 1.200 combattenti, una operazione che ha richiesto mesi di preparazione.

Secondo le autorità etiopi l’intenzione di al Shabaab è di creare una base in Etiopia e unirsi a qualche gruppo antigovernativo. Quando nel 2020 le truppe tigrine hanno iniziato l’offensiva contro il governo, un portavoce dei jihadisti aveva dichiarato: “non ci resta che incrociare le braccia e goderci lo spettacolo dell’Etiopia che si autodistrugge. Finalmente si avvicina il momento di colpire il nostro peggior nemico”.

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