La vera contrapposizione è tra coloro che vogliono rafforzare la legittimazione democratica delle istituzioni e coloro che invece vogliono un meccanismo per depotenziare la volontà popolare al fine di neutralizzarne gli effetti quando questa non produce gli esiti “giusti”
Prende avvio oggi il processo delle riforme istituzionali con la consultazione, presso la Camera dei deputati, tra una delegazione del governo (composta dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il sottosegretario Alfredo Mantovano, i vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani, e il ministro Elisabetta Alberti Casellati) e i rappresentanti delle varie forze di opposizione.
Avevamo già affrontato il tema in un articolo del 6 febbraio scorso (Il centrodestra non rinunci al presidenzialismo per un consenso più ampio), sostenendo la tesi che sarebbe stato un errore convergere sull’ipotesi del cosiddetto “premierato” per tentare di allargare il consenso parlamentare.
E ci sembra che le nostre convinzioni siano state nel frattempo confermate. Infatti, coloro che ieri proponevano il premierato per non perdere il ruolo di garanzia del presidente della Repubblica, oggi fanno ancora un ulteriore passo in avanti (o indietro), mettendo in discussione la stessa elezione diretta del presidente del Consiglio, perché così si svilirebbe il ruolo del capo dello Stato.
Il premierato? Solo guai
Ciò è importante per due motivi. Il primo metodologico: qualunque concessione farà la maggioranza di centrodestra non sarà mai sufficiente, a meno di concedere al centrosinistra il potere di proporre la riforma.
Il secondo è di merito: la tesi dello svilimento, nel premierato, del ruolo del presidente della Repubblica è convincente. Ed effettivamente questa argomentazione era la stessa che evidenziammo qualche mese fa, quando scrivevamo che solo apparentemente il premierato è una riforma meno impattante, essendo invece molto più radicale.
Difatti, se si toglie al capo dello Stato il potere di sciogliere le Camere e di nominare il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri, riduciamo il suo ruolo ad un grande cerimoniere con qualche residua competenza sostanziale. Situazione che, a nostro parere, sarebbe destinata a determinare insanabili contrasti e comunque sconvolgerebbe enormemente gli equilibri oggi esistenti.
Peraltro, seppur non è un argomento che ha una sua pregnanza logica, non si può non rammentare che sembra singolare che tra i molteplici modelli di forma di governo concretamente a disposizione, la scelta debba cadere in favore di un sistema che non ha precedenti (o ne ha pochissimi non particolarmente fortunati).
Al riguardo, si ritiene fuorviante la comparazione con il modello regionale, per l’ovvia constatazione che nelle Regioni non esiste un organo monocratico con posizione superiore al presidente di Regione direttamente eletto e che il grado di intensità e ampiezza normativa delle assemblee regionali è infinitamente inferiore a quella del Parlamento e dunque il principio di separazione dei poteri può assumere contorni meno netti, favorendo la previsione di legislazioni elettorali con premi di maggioranza, anche congrui, per consentire la corrispondenza tra maggioranza in assemblea e governo regionale.
Irrinunciabile l’elezione diretta
Ma, come dicevamo, queste considerazioni possono addirittura considerarsi superate perché qualcuno ha già spostato la linea del Piave, affermando che la riforma dovrebbe contenere solo misure di razionalizzazione dell’attuale forma di governo, senza la previsione di nessuna elezione diretta. Tale posizione trova conforto in alcune analisi che indicano in crisi il modello presidenziale anche nei suoi principali modelli, come dimostrerebbero le diffuse proteste in Francia e la radicalità della contrapposizione politica dopo l’era Trump negli Stati Uniti.
E gli oppositori di questa maggioranza fanno bene ad avanzare queste proposte, perché se già dopo qualche mese dalle elezioni vincenti il centrodestra abdica da solo alla sua idea di riforma istituzionale, si può ben pensare che qualche critica, magari accompagnata dalla consueta campagna mediatica sul pericolo democratico, potrà far desistere la maggioranza dal tentare di perseguire una riforma che non sia un semplice maquillage dell’esistente.
Perché occorre avere l’onestà intellettuale di dire che se è vero che la previsione del presidenzialismo nel programma elettorale era formulata in termini generici e non tecnicamente puntuali, è anche vero che la forma minima che una qualsiasi forma di governo presidenziale deve avere per potersi definire tale è l’elezione diretta del presidente della Repubblica, ossia della più alta carica monocratica del Paese.
Mantenere le promesse elettorali
Dunque qualsiasi riforma istituzionale che non preveda l’elezione diretta del presidente della Repubblica sarà un venire meno alle promesse elettorali. E ciò è ovviamente comprensibile quando non si ottiene la maggioranza parlamentare e occorre formare coalizioni con altri soggetti elettorale, lo è molto meno quando invece, come nel caso in argomento, si è ottenuta la piena maggioranza parlamentare.
In questo caso si ha il dovere di mantenere fede al programma elettorale, perlomeno nella fase di presentazione del progetto di riforma. Quando nel Regno Unito vinse la Brexit, i governi successivi sentirono l’imperativo dovere di attuarne l’esito e non di adattarlo alla necessità di un consenso più ampio o per non dispiacere qualche autorità.
Margini per un accordo
Pertanto la ricerca di un consenso più ampio dovrebbe avvenire su un progetto di riforma presidenziale sull’assunto che il corpo elettorale ha dato mandato alla maggioranza di operare in tal senso e che vi è molto spazio per una sintesi con le altre forze politiche perché il presidenzialismo può essere declinato in mille maniere.
Ad esempio, con riferimento al modello semipresidenziale, molto diffuso in Europa (quello statunitense, il quale prevede che il presidente della Repubblica sia il capo operativo del governo, invece ha avuto più fortuna nelle Americhe), questo può spaziare da un sistema di impronta “gollista” ad uno più parlamentare, con molte gradazioni intermedie possibili.
Pertanto, la scelta del modello presidenziale, cioè l’elezione diretta del capo dello Stato, non esaurisce il contenuto della riforma e consente una possibile interlocuzione con le altre forze politiche, anche estensibile al meccanismo elettorale (ad esempio, il semipresidenzialismo con ballottaggio e doppio turno potrebbe essere una soluzione non sgradita al centrosinistra).
Critiche strumentali
Anche le critiche mosse ai principali modelli presidenziali sembrano strumentali, poiché:
- la radicale polarizzazione statunitense non rappresenta certo una recente novità per quella esperienza ordinamentale che si nutre piuttosto di scontri tra opposte visioni;
- le proteste francesi riguardano i contenuti della proposta pensionistica e cioè sono la reazione ad una legislazione sociale ritenuta, a torto o a ragione, iniqua.
Perché il referendum
E pazienza se non ci sarà il consenso dell’opposizione, le quali avranno, ovviamente, la facoltà di promuovere il referendum ex art. 138 cost.. Anzi, farebbe bene sin d’ora la maggioranza ad affermare che in ogni caso la riforma presidenziale deve ottenere il placet referendario, perché è giusto che sia l’intero corpo elettorale a formulare il suo giudizio sulla forma di governo della Repubblica.
Molti dicono che i precedenti non portano bene, ma l’errore politico commesso in passato è stato quello di personalizzare il referendum in funzione plebiscitaria della propria leadership. Ben altra cosa è invece portare avanti una riforma da parte dell’intera maggioranza di governo con l’annunciata previsione di un referendum “istituzionale”, affinché l’elettorato compia la scelta della forma di governo del futuro tra repubblica presidenziale o parlamentare.
Rischi politici
In ogni caso, il potenziale rischio politico di un probabile referendum sulla riforma presidenziale è inferiore a quello di perdere il consenso dei propri sostenitori se non si ha il coraggio e l’audacia di tentarvi, col paradosso, già segnalato in passato, di fare proprio il modello istituzionale presentato dalla quarta forza elettorale.
Va bene fare le riforme condivise, ma se questo deve significare fare le riforme di chi perde le elezioni a scapito delle proposte di chi le vince allora forse è meglio procedere per conto proprio. A parte la considerazione che fidarsi dell’affidabilità politica dei leader del c.d. “Terzo polo” appare molto più audace e rischioso di tentare di realizzare i propri progetti.
Vi è quindi il rischio concreto di trovarsi da soli un progetto di riforma perseguito per avere un consenso più ampio e affrontare la sfida del referendum difendendo un modello prescelto da altri, perché, è bene ribadirlo per un’ulteriore volta, l’elezione diretta del presidente del Consiglio non ha nulla a che fare con il presidenzialismo e pone più problemi di quelli che dovrebbe risolvere, anche perché ci si muoverebbe in un territorio istituzionale vergine, essendo sostanzialmente privo di precedenti.
La vera contrapposizione
Ma se è consentito l’uso di una metafora bellica, il premierato è un falso obiettivo e, difatti, già qualcuno prende pure le distanze dall’elezione diretta del presidente del Consiglio. Il vero obiettivo è il mantenimento dello status quo.
In conclusione, la vera contrapposizione sarà tra coloro che vogliono rafforzare la legittimazione democratica delle istituzioni repubblicane nella convinzione che compete al popolo compiere le scelte fondamentali della vita pubblica, tra cui l’elezione del presidente della Repubblica, e coloro che invece ritengono sia necessario creare un meccanismo istituzionale di depotenziamento della volontà popolare al fine di neutralizzarne gli effetti quando questa non produce gli esiti “giusti”.