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Oltre alla guerra delle parole, cosa resta all’opposizione?

Una volta esaurita questa “schermaglia definitoria”, cosa resta? Supplenza sindacale come negli anni 60-70 e diritti civili nel cassetto?

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Continua imperterrita la guerra delle parole su cui ha finito per assestarsi, dopo la caduta del fronte elettorale, la miglior intellighenzia progressista, del tutto incapace di elaborare la sconfitta, tanto da incolpare una legge elettorale concepita e votata dalla stessa sinistra.

Le battaglie linguistiche della Gruber

Se non, addirittura, giungere a sommare astenuti e votanti per le tre opposizioni per sostenere che a ben guardare la nuova maggioranza parlamentare costituirebbe una minoranza elettorale. A far da apripista l’effervescente conduttrice di Otto e mezzo, che – lo confesso – mi ritorna sempre davanti agli occhi mentre calca la tolda dello yacht dell’ingegner De Benedetti, certo alla sua altezza, vistone il valore di quasi 70 milioni di euro.

In una precedente apparizione aveva criticato un messaggio di Giorgia Meloni nel quale appariva per due volte la parola “nazione” al posto di quella giudicata costituzionalmente più corretta di “Paese”, in quanto esente da qualsiasi nostalgia per il nazionalismo del ventennio.

Peccato che da collaudata giornalista dall’informazione impeccabile, si sia dimenticata che tale parola sia contenuta nella formula del giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica, dove il candidato premier fa la promessa di servire la nazione.

Niente di che, ma più appetitosa è la personale battaglia aperta dalla stessa Gruber nella trasmissione andata in onda questo martedì, per citare la Meloni come “la” e non “il” presidente, al modo che vorrebbe l’interessata.

Sospetto che, mentre la Meloni voglia spostare l’enfasi della rilevanza storica della svolta dall’essere donna all’essere premier del primo governo di destra autenticamente conservatrice; la nostra Gruber intenda esaurire tale rilevanza nel cambio di genere, essendo tutto il resto, dalla composizione del governo al programma, rivestito di muffa, un ritorno neppure al passato, ma al trapassato remoto. Alla fine a contare sarà la formula sotto cui la Meloni firmerà gli atti di sua competenza.

La denominazione dei ministeri

Non senza una furbizia tattica – far sfogare i mass media ancor prima della presentazione del programma in vista della fiducia – la Meloni ha voluto caratterizzare la sua identità di governo nel senso di una destra conservatrice, approdata per la prima volta a Palazzo Chigi, non solo con la scelta dei ministri, quelle di Nordio alla Giustizia e di Tajani agli Esteri, ma già nella nuova formulazione delle deleghe stesse.

Non tanto con riguardo a quelle strettamente economiche, perché oggi la differenza fra destra e sinistra non passa tanto con riguardo a tali politiche, ingabbiate come sono nella Unione europea, in ragione del nostro stesso debito; ma su altri valori più attinenti alla società civile.

Certo al limite del possibile risuonerà ancora lo slogan “meno stato e più mercato”, ma assai più flebile rispetto alla stagione della Thatcher e di Reagan; ma la Meloni ha anticipato nelle deleghe una ben diversa linea del fronte.

Lasciamo stare la reprimenda sollevata dalla dizione “Agricoltura e sovranità alimentare”, orecchiata come ostentazione di una deriva sovranista, quando invece trattasi di una mera traduzione letterale di una espressione francese, ma si sa la Francia è la Francia.

Il merito

Prendiamo, invece l’endiadi “Istruzione e merito”, dove la vecchia e collaudata dottrina liberale dell’uguaglianza dei punti di partenza riemerge vis-à-vis di quella dal fatto che il merito dovrebbe essere declinato secondo il grado dell’istruzione, certo ben diversamente da quello elementare a quello specialistico.

Resta che la capacità intellettiva fornita da madre natura è la sola riserva in materie prime del nostro Paese; e, comunque, che il richiamo al merito riguarda ancor prima i docenti, un vero e proprio blocco elettorale all’insegna di un sindacalismo livellatore al massimo.

Famiglia, natalità, parità

Il punto più identitario resta quello segnato dalla espressione “Famiglia, natalità, parità” dove le parole sono poste in una conseguenzialità causale che non lascia dubbi: la famiglia eterosessuale che costituisce la premessa della natalità e la sede da cui cominciare ad assicurare la parità fra i due sessi.

E in questa prospettiva l’aborto non è un diritto di cui essere orgogliosi, è un compromesso fra la libertà della donna e la vita del feto: la libertà della donna va resa effettiva nell’ambito di una politica ad hoc, mentre la vita del concepito va protetta da un certo numero di settimane in avanti, a seconda di quando lo si reputi dotato di un certo grado di autosufficienza.

Non esiste alcun diritto naturale o costituzionale ad un aborto incondizionato, in base ad un diritto assoluto sul proprio corpo, perché non c’è alcuna partogenesi umana: il concepito è frutto di un apporto esterno, che si presume essere stato accettato consapevolmente, prima o dopo il rapporto, sempre che in tempo utile.

Tutto questo senza poter prescindere dal fatto che la questione della riproduzione fisica e culturale non è affrontabile in base ad un approccio individualistico, compensato da un vetero-colonialismo all’insegna della Capanna dello zio Tom, non ha senso far figli, caricandosi dei pesanti oneri finanziari e psicologi relativi, tanto poi faranno i mestieri meno gratificanti, lasciamo che ci pensino gli immigrati del terzo e quarto mondo.

Su questo sfondo il compromesso raggiunto con la legge n. 194 richiede solo di essere meglio implementato, per cui è ben credibile la Meloni quando dice di non volerlo modificare, fermo restando che se anche lo volesse si scontrerebbe sia con la propria maggioranza che con l’opinione pubblica consolidata.

Una supplenza sindacale

Una volta esaurita questa schermaglia definitoria, che cosa resta? Risuona l’appello del segretario del Pd, Enrico Letta, opposizione, opposizione, opposizione, quasi che il replicare la parola la rendesse più forte. Riecheggia da lontano il resistere, resistere, resistere di Francesco Saverio Borelli, naturalmente con più di una differenza di persona e di congiuntura, ma soprattutto di destinazione perché Letta parla in primis di opposizione parlamentare e il capo di Mani Pulite di opposizione civile.

Ora, l’opposizione parlamentare non appare in partenza, per numeri e per divisioni, tale da poter condizionare o anche influire in maniera rilevante sul percorso del governo, con una prima conseguenza che apparirebbe rispondente rispetto alla fisiologia della vita parlamentare, vale a dire la scarsa necessità di ricorrere alla questione di fiducia se non per superare uno ostinato ostruzionismo.

Come contraccolpo di questa scarsa incisività dell’opposizione parlamentare, ci potrà essere un diffondersi e moltiplicarsi di una opposizione civile non governata dai classici partiti, sì da lasciare la possibilità se non di suscitarla, certo di canalizzarla alle grandi organizzazioni intermedie, a cominciare dai sindacati.

Si riprodurrebbe una situazione, simile a quella esistente nella svolta degli anni ‘60-‘70, cioè di una supplenza sindacale che, però, di per sé finirebbe per concentrarsi sui problemi dell’occupazione e del welfare state, senza troppa attenzione per i cosiddetti diritti civili.

I diritti civili risulterebbero la bella addormentata della prossima legislatura, non perché vi sarebbero arretramenti in quel che si è già conquistato, unioni civili e diritto all’aborto, ma complete elusioni delle aspettative coltivate nei programmi delle attuali opposizioni: l’estensione dei matrimoni anche agli omosessuali, la coltivazione della cannabis ad uso personale, la libertà nel scegliersi il fine vita, assai più ampia di quella garantita dalla giurisprudenza costituzionale, lo ius scholae maturato dopo solo cinque anni, la stretta ulteriore sulle discriminazione a danno dei LGBT.

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