Ottenuta la fiducia anche al Senato, legittimato dal Parlamento, il governo Meloni è nel pieno dei suoi poteri. Anche se la squadra andrà completata con i sottosegretari, può iniziare a passare dalle parole ai fatti.
Ci permettiamo di formulare qualche percorso che a nostro avviso dovrebbe avere la priorità in questi primi mesi di legislatura, solitamente il periodo in cui un governo può contare su tre fattori che ne favoriscono agibilità e agilità politica: compattezza interna, consenso da parte dell’opinione pubblica (qualcuno la chiama “luna di miele”), divisioni e sbandamento delle opposizioni.
Partire bene è fondamentale per il prosieguo dell’azione di governo e della legislatura.
Il governo Meloni dovrà riuscire a tenere in piedi parallelamente due filoni di iniziative. Il primo riguarda ovviamente l’azione di governo in senso stretto: provvedimenti per affrontare la crisi energetica e, ormai, con la recessione alle porte, si può dire anche economica, sia in ottica emergenziale che strutturale, e in generale iniziative legislative per cominciare ad attuare il programma.
Uno spoil system profondo
Ma la maggioranza dovrebbe cominciare subito – ed è il secondo filone – una discreta, silenziosa, ma implacabile opera di “spoil system” nei ministeri e in tutte le autorità e società pubbliche. Senza fuochi d’artificio e inutili provocazioni, ma in modo spedito e sistematico.
Per durare infatti è anche importante mostrare agli apparati, alle amministrazioni pubbliche, che si sta aprendo una nuova pagina, una nuova epoca, mettere i piedi nelle istituzioni, diventare establishment.
Meloni ha spesso evidenziato in campagna elettorale come in molti settori, dal mondo dello spettacolo a quello accademico e della cultura, dalla magistratura all’industria, personalità di centrodestra siano attente a non venire allo scoperto per timore di subire un “danno reputazionale” nel loro ambiente.
È questo il momento di dar loro una prospettiva di medio-lungo termine, mostrando l’intenzione di valorizzare le migliori energie d’area – conservatrici, liberali, cattoliche – in tutti i campi.
Ma veniamo alle quattro priorità (e alle due insidie).
1. Energia
Ricordare che il capitolo energia è la priorità di queste settimane è cosa banale. Forse però non è altrettanto banale segnalare che questa priorità non si esaurisce nell’affrontare l’emergenza del caro-bollette, la situazione contingente, ma comprende anche un livello strategico e culturale.
Ormai, come le tasse e il fisco, anche energia e ambiente sono tra i temi distintivi, che definiscono politicamente e culturalmente una parte politica rispetto all’altra.
Anche su questo tema la destra deve riuscire, come fa sui temi identitari, a presentarsi come alternativa alla sinistra, sottraendosi al mainstream. Al contrario, fino ad oggi le destre europee hanno incarnato un approccio solo leggermente più moderato rispetto ad una transizione ecologica di cui non hanno voluto o saputo mettere in discussione la validità dei presupposti e degli obiettivi.
Il caro-bollette e la prima insidia
Sbaglierebbe quindi il governo se concepisse il capitolo energia in una logica puramente emergenziale, anche se certo mitigare l’impatto del caro-bollette su imprese e famiglie è l’urgenza più pressante.
Innanzitutto, qui si nasconde subito una prima insidia: l’illusione che Mario Draghi abbia lasciato in eredità un percorso ben avviato da seguire.
Sono diversi i segnali da cui ricaviamo l’impressione che il nuovo governo abbia fatto propria la narrazione del governo uscente. Anche ieri, nella sua replica al Senato, Giorgia Meloni ha espresso la sua perplessità su uno scostamento di bilancio, ha posto l’accento sulla speculazione come causa principale dell’aumento dei prezzi del gas e reiterato la richiesta di price cap, in linea con l’ex premier.
Sbaglia il presidente Meloni quando afferma che il solo parlare di price cap al Consiglio europeo abbia fatto abbassare i prezzi del gas, quando i motivi sono altri, come spiega nel suo articolo di oggi Marco Hugo Barsotti.
La pista del price cap e di uno Sure 2.0, da percorrere a braccetto con Parigi contro i tedeschi, rischia di rivelarsi un vicolo cieco. È l’errore madornale del governo Draghi, che ci ha fatto perdere sei mesi fino a quando, a sorpresa, subito dopo il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream, Berlino ha annunciato il suo piano da 200 miliardi.
Perseverare puntando tutto su questa strada sarebbe diabolico. Se dalla convergenza di interessi con Parigi potrà arrivare un nuovo strumento di debito comune per mitigare l’impatto dei prezzi e una qualche riforma del mercato energetico europeo, TTF compreso, ci vorranno comunque mesi. Un tempo che il nuovo governo non può permettersi di aspettare, quando le imprese rischiano di chiudere e le famiglie di vedersi staccare le utenze.
Una duplice discontinuità
Occorre una netta, duplice discontinuità dalla linea del precedente governo. In primis sul piano interno, mettere subito in campo una risposta nazionale, senza escludere nuovo debito ma nemmeno affidandosi unicamente ad esso.
Innanzitutto, respingere il luogo comune secondo cui “non ci sono soldi”. I soldi ci sono – e tanti. Il bilancio pubblico è enorme. Rappresenta circa la metà del Pil del Paese. Bisogna solo avere la volontà e il coraggio di cambiare le priorità, come avviene in qualsiasi famiglia in difficoltà.
Non è sostenibile l’idea che tutte le spese abbiano lo stesso livello di priorità. Nelle pieghe – che non sono nemmeno tanto “pieghe” – di quel bilancio ci sono programmi di spesa per decine di miliardi totalmente inutili, veri e propri sprechi, a partire ovviamente dal reddito di cittadinanza. Quei capitoli di spesa vanno chiusi e le risorse spostate per contenere il caro-bollette.
Seconda discontinuità sul piano europeo. Potrebbero volerci mesi per negoziare uno Sure 2.0 sui prezzi dell’energia, mentre proprio le resistenze tedesche e nordiche ad un nuovo strumento di debito comune potrebbero legittimare l’utilizzo immediato dei fondi che esistono già: il fondo di coesione, il Pnrr, il RePowerEu, concepiti in un’altra fase economica. Ce lo stanno dicendo gli stessi tedeschi e olandesi: rispetto ad un nuovo strumento, preferiamo che usiate i fondi che ci sono già. Perché non farlo?
Inoltre, il meccanismo di un “corridoio dinamico” dei prezzi, non un price cap, abbozzato dalla Commissione e dall’ultimo Consiglio, è confuso e subordinato al verificarsi di troppe condizioni, oltre che ancora da negoziare nei dettagli.
Più energia: gas e nucleare
In breve: sulla contrarietà al price cap e formule simili molto probabilmente hanno ragione i tedeschi. L’errore è nell’analisi: se, come pensiamo e abbiamo più volte sostenuto su Atlantico Quotidiano, la speculazione gioca un ruolo minore e la causa è la scarsità dell’offerta, le ipotesi di price cap rischiano di aggravare, anziché risolvere il problema.
E questo ci porta al livello strategico, strutturale del capitolo energia. Dalla crisi si esce solo aumentando l’offerta, cioè producendo più energia. Da questo fronte fondamentale il governo Draghi si è distratto, per concentrarsi sulla battaglia per il price cap. E abbiamo perso mesi.
A livello nazionale si può agire subito, rimuovendo i vincoli alla produzione nazionale di gas e alla realizzazione delle infrastrutture, come i rigassificatori, ma anche ripartendo subito con il nucleare. La tecnologia è sicura e a parità di potenza i tempi non sono superiori all’installazione di rinnovabili, come ci spiegava Umberto Minopoli.
Ovviamente il tema dell’aumento della produzione di energia a livello continentale va posto anche in sede europea e su questo occorre dare battaglia. L’uscita sconsiderata dal nucleare da parte della Germania, per esempio.
L’impatto delle politiche green
Una seconda illusione di cui liberarsi è che la crisi energetica sia essenzialmente dovuta alla guerra in Ucraina e, una volta cessata, i prezzi torneranno ai livelli pre-Covid. Quel mondo è finito e sarà bene farsene una ragione.
Primo, perché il gas russo non tornerà. Quanto meno non tornerà nei flussi precedenti. Secondo, perché la crisi dell’offerta è dovuta alle irresponsabili politiche green, che hanno causato un forte disinvestimento, particolarmente accelerato negli ultimi 5-6 anni, nelle fonti di energia più affidabili come idrocarburi e nucleare.
Dunque, bisogna cancellare gli obiettivi di riduzione delle emissioni di Co2 e di decarbonizzazione. Quando si fissa, per esempio, il divieto di vendita di auto con motori endotermici al 2035, o la neutralità climatica per il 2050 (praticamente domani e dopodomani mattina) l’effetto che si ottiene, non tra dieci o vent’anni ma da subito, è il disinvestimento nell’industria delle fonti fossili e della raffinazione, essenziali per qualsiasi economia industrializzata.
Perché qualcuno dovrebbe continuare a mettere soldi in un business che va ad esaurimento entro breve periodo, per quelli che sono i tempi di investimento a lungo termine? Disinvestimento vuol dire scarsità dell’offerta e scarsità dell’offerta prezzi alti.
Dipendenza dalla Cina
C’è poi il piano della sicurezza nazionale. Mentre a parole i governi europei ripetono che non bisogna commettere con la Cina gli stessi errori commessi con la Russia di Putin, è esattamente ciò che stanno facendo.
L’idea ad oggi prevalente nelle istituzioni Ue e nei governi europei è che non ci sia sicurezza energetica senza transizione ecologica, ovvero si stanno usando la guerra in Ucraina e la guerra economica alla Russia per accelerare la transizione alle fonti rinnovabili e la corsa alla decarbonizzazione.
Ma ciò è suicida per due motivi. Primo, come spiegato prima, perché sono proprio le politiche e gli obiettivi green ad aver scatenato la crisi dell’offerta di energia. Secondo, quand’anche ci avvicinassimo a quegli obiettivi, ci accorgeremmo presto di essere passati dalle mani della Russia di Putin alle mani della ben più potente Cina totalitaria di Xi Jinping.
Lo sbocco inevitabile è infatti la sostituzione della dipendenza dal gas russo con una dipendenza altrettanto pericolosa dalle materie prime e dalle catene di approvvigionamento cinesi, o sotto il controllo di Pechino. Parliamo ovviamente di pannelli solari, batterie per auto elettriche, ma non solo.
Greenexit
Dunque, se dal punto di vista culturale il presidente Meloni ieri ha contrapposto l’ecologismo di Roger Scruton (“difendere la natura con l’uomo dentro”) al climatismo gretino come ideologia anti-sviluppista e in definitiva anti-umana, dal punto di vista politico il nuovo governo dovrebbe denunciare gli obiettivi di decarbonizzazione.
Dichiarare sin d’ora, per esempio, che il governo italiano non ha alcuna intenzione di fermare la vendita di auto a benzina e diesel nel 2035, che intende rilanciare il nucleare così come le attività di esplorazione e trivellazione oil & gas, farsi promotore in Europa di un risveglio dal letargo energetico, di una greenexit, l’uscita da una transizione ecologica che già oggi si sta traducendo in crisi energetica permanente e dipendenza dalla Cina.
2. Meno tasse e meno burocrazia
La seconda priorità su cui il governo Meloni dovrebbe subito concentrarsi è la riforma fiscale e burocratica. Sebbene in questa prima legge di bilancio le risorse vadano concentrate per mitigare il caro-bollette, e fughe in avanti siano pertanto sconsigliabili, non può mancare un primo segnale di riduzione del carico fiscale e un percorso credibile, scadenzato nei cinque anni, di tagli alle tasse e alla spesa pubblica e di sburocratizzazione.
A questo proposito abbiamo ascoltato passaggi convincenti nel discorso programmatico del premier Meloni: il motto di questo governo sarà “non disturbare chi vuole fare”. “La ricchezza di questo Paese la fanno le aziende con i loro lavoratori, non lo Stato con la sua burocrazia e i suoi editti”, ha detto accennando ad un nuovo “patto fiscale”.
Il principio che dovrebbe guidare l’azione dell’Esecutivo è semplice. Nei decenni passati il governo ha ingrandito a dismisura il bilancio pubblico, ampliando fino all’inverosimile i suoi poteri di intervento nell’economia e nelle vite delle persone. È ora di invertire la tendenza.
Detto con le parole della signora Thatcher, “quello che dovevamo fare non era altro che ristabilire gli equilibri di potere tra governo e cittadini a favore dei cittadini; limitare il potere del governo e ampliare la libertà delle persone“.
La terza e la quarta priorità riguardano la correzione di storture e derive istituzionali che hanno reso non funzionante e tossica la nostra vita democratica.
3. Presidenzialismo, basta una riga
Sulla riforma presidenzialista si nasconde la seconda grande insidia di questo inizio legislatura per la maggioranza. L’errore da non ripetere è quello commesso da Matteo Renzi e dai governi Berlusconi prima di lui, ovvero farsi tentare da una grande riforma costituzionale.
Un lungo, faticoso e farraginoso processo in cui di solito i governi sono rimasti impantanati prima in Parlamento, partorendo compromessi al ribasso, poi nelle urne, perdendo il referendum confermativo.
La riforma dovrebbe invece prevedere una singola, semplice norma: l’elezione popolare diretta del presidente della Repubblica. Senza per il momento toccare alcunché dei poteri e delle prerogative del capo dello Stato o degli altri organi costituzionali. Così da velocizzare l’iter parlamentare e presentare ai cittadini un quesito chiaro, un’alternativa secca: volete eleggere i presidenti della Repubblica, o volete che siano i partiti a continuare a sceglierli?
Posta in questi semplici termini, sarebbero minimizzati i margini di ostruzionismo delle opposizioni e massimizzate le chance di successo referendario.
4. Giustizia
Infine, ultime ma non in ordine di importanza, le riforme della giustizia. Anche questo un nodo da sciogliere, anzi tagliare fin da subito. Prima che il governo venga, come prevedibile, preso di mira dalle iniziative giudiziarie delle toghe rosse e, quindi, possa venire accusato di volere le riforme per “rappresaglia”.
Riforma del Csm, per strapparlo al controllo delle correnti, e separazione delle carriere. Riforme che rivestono una grande importanza per l’amministrazione della giustizia, per le garanzie dell’imputato, ma anche un valore per la salute della nostra democrazia, consentendo di ristabilire l’equilibrio tra i poteri, ridurre la politicizzazione della magistratura e il suo potere di ricatto sulla politica.