Politica

Ora nuova fase per Meloni: più Italia, più “no” in Europa, aspettando Trump

Entrata queenmaker, è rimasta stritolata dal suo stesso successo: hanno avuto paura. Si è dimostrata pronta ad un accordo ma non a svendere i principi conservatori

meloni ursula von der layen europarlamento © Leonid Andronov tramite Canva.com

Che cosa è successo negli ultimi 40 giorni, dal voto degli elettori europei dell’8-9 giugno al voto in Parlamento europeo del 18 luglio? Cosa è successo a Giorgia Meloni, che era entrata nelle urne come possibile queenmaker ed è uscita come grande sconfitta dal voto di giovedì che ha dato luce verde alla Commissione Ursula-bis? Come è possibile che l’unica tra i capi di stato e di governo dei grandi Paesi Ue premiata dagli elettori sia invece uscita ammaccata dai palazzi del potere di Bruxelles e Strasburgo?

Accettiamo sportivamente lo sfottò di Carretta sul Foglio per averla definita “queenmaker” – anche se in compagnia di copertine di ben più autorevoli testate. Certo, la spiegazione più facile e per la maggiore – soprattutto tra i commentatori di sinistra, ma non solo – è che abbia sbagliato le sue mosse, comportandosi da capo partito e isolando l’Italia. Avrebbe dovuto votare per il bis di Von der Leyen, anche di fronte ad una maggioranza e ad una agenda indigeribili e senza alcuna garanzia nella partita dei nuovi commissari.

I lettori di Atlantico Quotidiano conoscono il nostro orientamento, ma sanno anche che non risparmiamo critiche anche dure al governo Meloni. In questo caso, però, non ci sentiamo di criticare le scelte di Giorgia Meloni in circostanze avverse non dipendenti da suoi errori.

Aveva investito molto, in questi primi due anni di governo, nel rapporto con Ursula Von der Leyen, la quale ha ricambiato proprio perché dalle urne la premier italiana avrebbe potuto emergere come attore decisivo per la sua riconferma.

Ha vinto la paura

Può apparire paradossale, ma in un certo senso Meloni è rimasta stritolata dal suo stesso successo. L’avanzata delle destre europee alle elezioni dell’8-9 giugno, e la pesante sconfitta di socialisti, macronisti e verdi, non sono state sufficienti ad imporre numericamente un mutamento degli equilibri di potere nelle istituzioni europee, ma è stata più che sufficiente a spaventare i partiti dell’establishment, che praticamente da sempre detengono le leve del potere, i quali hanno scelto l’arrocco, pur di non recepire i segnali emersi dalle urne.

La spallata al vecchio sistema sarebbe potuta arrivare un mese dopo, dalle legislative francesi, ma l’azzardo di Emmanuel Macron è andato a segno, nonostante molti avevano ormai messo in conto un governo del Rassemblement National, confermando a livello europeo la bontà della scelta dell’arrocco.

Se l’arrocco era comprensibile per gli sconfitti – socialisti, macronisti e verdi – lo è molto meno per il PPE, che premiato dal voto avrebbe potuto esplorare nuove formule per coniugare la sua confermata centralità con la richiesta di cambiamento espressa dagli elettori.

Ma appunto, anche nel PPE, ha prevalso la paura. La paura che aprire alla Meloni, sebbene si era in questi due anni dimostrata collaborativa e sia alla guida di una destra già di governo e moderata, avrebbe potuto aprire un’autostrada a Le Pen in Francia e AfD in Germania. Una visione che riteniamo miope, ma questa ci sembra che abbia determinato l’arrocco, con la clamorosa esclusione di Meloni dalle consultazioni per i top jobs Ue e la chiusura del “club dei perdenti” alle richieste italiane sul nuovo commissario.

La partita dei commissari

Una volta stabilito di andare avanti con la maggioranza Ursula, il voto di giovedì al Parlamento europeo è stato la logica conseguenza di un dato numerico. Von der Leyen ha scientemente fatto e detto di tutto per non avere i voti di Fratelli d’Italia. Se avesse preso quei 24 voti avrebbe certissimamente perso i 54 dei Verdi e probabilmente altrettanti dai Socialisti. E allora sì, avrebbe rischiato.

Ora si apre la partita dei commissari, indipendente dal voto di giovedì. La mia lettura è che l’Italia non avrà il commissario che aveva chiesto (Industria e vicepresidenza esecutiva), ma non lo avrebbe avuto comunque, anche se Meloni avesse regalato i suoi voti, proprio perché lo schema nei suoi confronti è quello del cordone sanitario, ma Von der Leyen è ben consapevole che avrà bisogno della premier italiana nel prosieguo della legislatura quindi cercherà di assegnare all’Italia un commissario adeguato al suo peso come Paese.

“Escluderla dalle decisioni sulle cariche principali è stata una scelta miope. Ha fatto benissimo a non votare Von der Leyen“, ha detto all’Adnkronos James Carafano, editorialista e senior fellow della Heritage Foundation. “L’idea che questa ondata politica di destra sia destinata a passare e che i suoi membri debbano essere messi in un angolo come bambini capricciosi, è il segnale che una parte delle istituzioni europee non ha capito questo momento storico. È una forza che sta crescendo e marginalizzarla la rafforzerà”.

Realtà e nuova fase

L’idea che in quanto premier di un Paese fondatore come l’Italia e leader di una destra “moderata” e atlantista le avrebbero aperto le porte a Bruxelles si è rivelata sbagliata. Era giusto provarci in questi due anni, ma bisogna prenderne atto. Non accadrà, almeno finché ci saranno Macron e Scholz, finché Merz non andrà al governo in Germania. Il PPE, la CDU tedesca, non sono pronti.

E Giorgia Meloni deve elaborare prima possibile il lutto. Si è aperta una fase nuova in Europa, certamente più conflittuale. Bisognerà tornare a dire dei “no, no, no”, non solo a prenderli, e a fare squadra con le altre destre europee, cercando di guidarne l’evoluzione in senso atlantista. E guardare al 5 novembre.

È la “leader conservatrice europea più rispettata, influente e articolata”, osserva ancora James Carafano. “Sicuramente è vista così negli Usa, un ponte tra i conservatori e la destra in stile Orban. Avrà un ruolo centrale nella politica europea dei prossimi anni, anche e soprattutto se non ha votato insieme alla maggioranza Ursula. Si è dimostrata pronta a trovare un accordo ma non a svendere le sue radici conservatrici. Una modalità che possiamo definire trumpiana. Non a caso credo che se a novembre dovesse vincere il ticket Trump-Vance, Meloni sarebbe in una posizione perfetta per essere una degli interlocutori principali per la Casa Bianca”.

Ma soprattutto, in questa nuova fase Meloni dovrà occuparsi di più di politica interna. Tasse, immigrazione, sicurezza, come ha ribadito Daniele Capezzone su Libero. Gli italiani si aspettano di uscire di casa la mattina e percepire che il Paese è guidato da un governo di destra – cosa che al momento ancora non si vede. E c’è una legge di bilancio difficile da scrivere, forse decisiva per lasciare o meno il segno e dare un senso a questa legislatura.

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